Mattina. Era una bella giornata di primavera. Michelino si sentiva eccitato dall’atmosfera della partenza. Il padre aveva portato la macchina davanti al portone e aveva iniziato a caricare le borse. La mamma si attardava ancora in casa per gli ultimi preparativi e chiudere la casa.

Papà ti aiuto” dice Michelino sollevando una borsa, pienamente partecipe dell’evento, e intanto guardava il papà con un’espressione di complicità data da quella collaborazione che sanciva la piena partecipazione al progetto che si stava svolgendo. Si sentiva un ometto, aveva 6 anni, aveva un suo ruolo, poteva aiutare.

Poi era salito di corsa in casa a prendere un suo gioco, il più personale dei suoi bagagli. Aveva sceso le scale di corsa per non intralciare la partenza con un ritardo, intanto la serratura della porta di casa girava una sola volta, un solo scatto.

Un pensiero della durata di un lampo “perché mai la mamma non chiude bene la porta?… si parte, li ho contati sono otto scatti quando è chiusa bene… poi glielo chiedo… si parte, si parte.. via!”.

Uscito dal portone aveva visto la nonna accanto alla macchina che parlava con papà.

Come mai la nonna è qui?… per salutare?… strano!…

Ecco Michelino! Vieni dalla nonna che salutiamo mamma e papà che partono…

Michelino si era avvicinato alla nonna come un automa, con un sorriso di circostanza, perché era la nonna… poi più niente…

Michelino è diventato Michele. 30 anni. Vive in costante preoccupazione che qualcosa vada male, percependo l’eco di una lontana catastrofe che si avvicina. “…mi sento come uno che si trova ad una festa senza essere stato invitato…”.

La sua testa “rumina” alla ricerca delle conseguenze di ogni suo comportamento, come in una partita di scacchi fatta su una scacchiera troppo grande per immaginare le variabili che sono generate da ogni mossa e questa ruminazione è accompagnata da una continua percezione di un ineffabile senso di rovina, di perdita, di abbandono.

Michele è schiavo del passato, come colui il quale per un reato commesso in giovane età attende l’ultimo grado di giudizio per la carcerazione definitiva, ma non si tratta di un solo processo, è un processo che come un’idra rinnova nuove teste quando credi di averle mozzate, ogni gesto un reato, una colpa, una condanna, sempre la stessa… perdere tutto.

Ho chiesto a Michele di riflettere sulle traduzioni di perdere tutto nei suoi sinonimi, metafore e frasi affini. Emerge rimanere solo, essere abbandonato. Michele è ancora Michelino?

Michele contiene un Michelino molto attivo, onnipresente che influenza la sua percezione del mondo di Michele con il pregiudizio generato dalla sua esperienza che, a sua volta, ha generato un complesso meccanismo difensivo, fatto di necessità di prevedere le conseguenze dei propri comportamenti e le reazioni dell’altro.

È come se pensasse che quel che sta vivendo è da lui mal interpretato e mal rappresentato. Come se per disattenzione fosse sfuggito qualcosa e, di conseguenza, ci si possa trovare di fronte ad inaspettate conseguenze, soprattutto a conseguenze negative, alla dimostrazione di aver sbagliato.

Su questo torneremo ma prima è necessaria una precisazione.

L’episodio raccontato in apertura non è la causa sola del modo di essere di Michele, è l’esempio di quello che, verosimilmente è stato lo stile relazionale fra Michelino ed i suoi genitori.

Ogni stile relazionale è fatto di credenze e previsioni riguardanti l’altro. Se l’altro significativo mostra comportamenti contraddittori riguardo all’essere disponibile, al desiderio di tenerti vicino, al valore che attribuisce alla tua persona, la conseguenza è l’imprevedibilità che eccita una ipersorveglianza ed una salienza abnorme dei comportamenti osservati.

In altre parole tutto diventa ipersignificativo dei comportamenti dell’altro con la conseguenza di trovarsi ogni volta di fronte al dilemma della scelta, ogni parola e gesto nasconde un bivio, una o più alternative.

Un episodio, quello della partenza, che esemplifica numerosi altri episodi simili che hanno contribuito ad impedire a Michelino di costituirsi un sentimento di familiarità con i fatti e con gli scambi relazionali che gli consentissero di viverle con un sentimento di ragionevole sicurezza. 

La partenza per una vacanza, anche un fine settimana semplicemente, reca con sé un’aria di festa (Michele “mi sento come uno che è ad una festa senza essere stato invitato”). Cosa potrà pensare un bambino che si scopre escluso da quella festa? Come si spiega il fatto di essere lasciato fuori, dai genitori, dal progetto di vacanza?

Le azioni che i genitori compiono con il figlio, verso il figlio, sono i mattoni per mezzo dei quali, viene costruito il sistema di sicurezza di un bambino.

La certezza della presenza della madre favorisce nel bambino l’autorizzazione a formulare una previsione ottimistica che, non solo la madre, ma verosimilmente anche altre persone, con le quali potrà avere un buon rapporto saranno affidabili, benevoli e non rifiutanti con lui.

Torniamo al racconto di Michelino dell’inizio.

Michelino ad un certo punto dei preparativi si è fatto avanti per collaborare, per farsi partecipe, per mostrare di meritarsi di partecipare alla vacanza. È ragionevole supporre che fra gli stimoli alla base del suo comportamento collaborativo ci fosse anche questo, più o meno consapevole. Sono un bravo bambino, collaboro merito di stare con voi.

Una tale istanza pone la questione del vedere lo svolgersi degli avvenimenti alla luce del dilemma: merito/non merito, ho fatto bene/ho fatto male, giusto/sbagliato…

Se consideriamo questa prospettiva la ruminazione di Michele è una faticosa sorveglianza, in termini di previsione, del percorso che faranno le sue azioni, tormentato dall’ansia di scoprire che qualcosa è stato fatto male e che quindi non sarà più meritevole, verrà rifiutato.

Supponiamo che Michelino invece non avesse formulato a nessun livello il pensiero di meritarsi la vacanza perché è un bravo bambino. Possiamo interrogarci sulle spiegazioni che si è dato per giustificare il fatto che i genitori non lo hanno portato con lui.

In termini traumatologici, intesi come ricerca di eventi che hanno assunto un significato particolare perché hanno instaurato credenze e cognizioni durevoli capaci di influenzare la rappresentazione (controllo top-down) e l’interpretazione degli eventi successivi, lo sforzo che siamo chiamati a fare è di studiare insieme al paziente cosa può egli aver pensato di sé in quella circostanza, in questo caso la partenza dei genitori senza di lui.

Le risposte di Michele:

–          Non ero buono abbastanza

–          Non avevano bisogno di me

–          Preferiscono stare da soli loro due

–          Non stavano bene con me

–          Non avevo gran valore

Occorre ora distinguere le affermazioni che riguardano gli altri da quelle che riguardano se stessi, in questo caso le affermazioni che riguardano Michele. Infatti, solo la prima e l’ultima sono affermazioni che esprimono l’idea che Michelino aveva di sé per spiegarsi l’abbandono dei genitori.

Un’idea del genere può fare molta strada, soprattutto se sostenuta da una certa ripetitività di eventi che suscitano le stesse considerazioni su di sé.

Non si può cambiare il passato. Si può cercare di far cessare la sua pesante interferenza sul presente, sciogliendo il legame fra il ricordo dell’evento e la componente emotiva che lo accompagna.

Per questo compito l’EMDR è il miglior strumento a disposizione, ma perché sia efficace è necessario centrare bene le cognizioni negative che affliggono il paziente, meglio ancora quella che io chiamerei la cognizione negativa generativa, una sorta di madre di cognizioni negative successive e di sistemi di difesa altrettanto negativi.

C’è infatti il rischio di porre le mani su cognizioni negative secondarie che conducono rapidamente a dialogare con la parte apparentemente sana che è la trappola di ogni psicoterapia.

Torniamo al nostro Michele.

Qualche specialista ha sottolineato una certa dipendenza dalle indicazioni e dai giudizi della madre, donna determinata e volitiva. Qualcun altro ha indicato nelle difficoltà di Michele, nelle sue ruminazioni il tentativo di seguire il modello del padre, professionista di successo.

Da queste considerazioni i consigli: devi stare lontano da tua madre, devi fare scelte autonome, devi farti la tua strada a prescindere dai desideri dei tuoi genitori.

Ma come si fa a vivere in autonomia se non si dispone di un codice che consenta di decifrare con sicurezza accettabile cosa succede fra noi e gli altri?

C’è una parte ancestrale di noi che fa conti molto semplici, è quella di cui si sono avvalsi i primi ominidi per stabilire se l’altro era buono o cattivo, affidabile o pericoloso, se si era a giusto titolo accolti in un gruppo con conseguenti maggiori garanzie di difesa contro i predatori.

All’inizio della nostra vita ripercorriamo velocemente le tappe della nostra evoluzione per l’immaturità del nostro apparato neuropsichico ma questo non impedisce di registrare, con le ancestralità che mese per mese attraversiamo e facciamo sprofondare nell’inconscio che non fu mai conscio, le esperienze che viviamo.

Questo apparato del cervello più antico è molto sensibile a segnali comportamentali (non dispone ancora di una lettura traducibile in linguaggio) alla vicinanza ed alla lontananza, all’inclusione ed alla esclusione e si potrebbe dire che forgia le prime antenne della ipervigilanza relazionale.

Riducendo tutto il discorso ai minimi termini, un bambino ha solo bisogno di sentire con certezza di essere stato desiderato, attraverso segnali semplici, vicinanza, calore, protezione, disponibilità, reperibilità, prevedibilità dunque costanza, empatia ed infine l’ineffabile sensazione della gioia della madre per esserci (quel che viene descritto come essere pensato dalla madre).

Perciò, quando si parla ad un paziente occorre ricordare sempre di domandarsi a chi si parla. Se si tratta di una persona schiava del suo passato, costruita nel contesto di traumi, magari non appariscenti, ma costanti e sempre uguali, il dialogo non avviene con la persona nel presente, bensì con il protagonista delle vicissitudini del passato.

Si può allora dire a Michelino, che vuole giustamente stare con i suoi genitori, di allontanarsi da loro? Come si fa?… ne ha ancora bisogno!

Una parte di Michele “dipende” dalla madre nella speranza che, attraverso la compiacenza (faccio quel che vuoi tu) Michelino non venga abbandonato, ma qui entra in gioco una parte più sana di Michele che gli fa sentire ciò che fa per compiacere la madre come vuoto di senso e infine, come in un anelito d’orgoglio, sabota tutto.

Ciò accade perché Michelino è arrabbiato, sa che fare il bravo bambino non porta a nulla, ha continuato a farlo a lungo e ancora ci ricade ma, con rabbia, ad un certo punto si ribella, come dicesse “ho fatto quello che pensavo tu volevi che io facessi, non cambia niente, è estenuante, basta! Sabotaggio, sabotaggio!”. Non gridato, non appariscente, sottile e lento, come lasciare consumare una candela, ben intenzionati a non sostituirla.

Poco convinto ormai che sia utile compiacere ma sempre tentato di farlo, Michele si è lanciato verso la costruzione di progetti autonomi, ma il tormento si ripete, perché ogni atto autonomo è esposto al rischio dell’errore con conseguenze catastrofiche.

Nell’impianto di pregiudizi c’è l’equazione autonomia = solitudine anziché autonomia = padronanza, e solitudine significa essere fuori dal proprio branco, o forse espulsi ed esposti ad ogni pericolo.

Occorrerà trovare quella parola che descrive la cognizione negativa che Michele ha di sé per raggiungere quei territori non abitati dalla ragione, dove la vita si affanna in una natura indecifrabile per ricondurre quelle sensibilità nel contesto di nuove memorie e porre ad ogni bivio cartelli che indichino la strada sicura. Si sostiene che l’EMDR produca uno stato analogo al sonno REM. Il sonno, il luogo dell’inconscio in cui le informazioni si incontrano e si temperano fra loro.

“…Come in un iceberg, dove gran parte della massa è invisibile perché sta sotto la superficie del mare, così nel cuore dell’uomo c’è un continente sommerso che la scienza non potrà mai illuminare. 

Quel continente è la terra in cui, a tratti, arrivano i bagliori del reale, di ciò che sta sotto, nascosto, occultato dalla trita banalità dei giorni. Qualcosa di cui ogni essere umano, almeno una volta nella vita, intuisce l’esistenza. 

È compito delle parole catturare questo istante, l’istante in cui il velo si lacera e fa vedere almeno per un attimo, la luce accecante della verità…”

Susanna Tamaro. Il tuo sguardo illumina il mondo. Solferino 2018

 

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