C’è qualcosa di oscuro ed al contempo eloquente nelle condotte autolesive delle adolescenti (troviamo più frequentemente questo comportamento nelle giovani ragazze).

In alcuni casi, i più frequenti, si trova una relazione con molestie gravi o abusi subiti nel corso dell’infanzia e questo bisogno di ferire il corpo sembra testimoniare e far rivivere un bisogno di controllo del dolore sul corpo, mentre si attiva uno stato dissociativo, in cui nulla si sente e nulla si pensa.

In questi casi si potrebbe dire che il trauma viene rivissuto nella parte che è stata sperimentata come difesa, l’allontanamento emotivo da ciò che accade al corpo è accompagnato da un offuscamento dello stato della coscienza, una sorta di condizione crepuscolare dell’io, inteso come luce della coscienza che si attenua, per meno percepire e meno attribuire a sé ciò che accade.

Si tratta di casi nei quali, dopo un paziente lavoro esplorativo, è possibile rintracciare la presenza, nell’infanzia, di un evento traumatico, un abuso, una violenza come sopra accennavo.

Le cose si fanno complicate, in un certo senso misteriose, quando l’anamnesi, dopo accurati riscontri, risulta negativa per traumi e abusi. Si deve considerare un’altra ipotesi.

Si tratta di pazienti che non hanno trovato nelle figure di attaccamento il minimo di comprensione empatica  e le cui esperienze fatte di percezioni e sensazioni elementari non sono state  accolte ed elaborate di quel tanto da poter divenire pensieri.

Non si può non pensare alla funzione alfa descritta da Bion. Si deve pensare perciò alla possibilità che in alcuni bambini, per via della natura deficitaria della madre, o comunque di chi esercitava questo ruolo, sia mancata questa funzione e la crescita sia stata accompagnata ad un accumulo di elementi beta.

Bion affermava che i protopensieri, gli elementi beta, sono oggetti cattivi di cui è necessario liberarsi (tra i modi escogitati per liberarsi degli elementi beta includerei anche il vomito). Si tratta di sensazioni presimboliche e viscerali che possono trovare un contenitore, un luogo nella mente, una spiegazione se la madre è in grado di accoglierli, “digerirli” e trasformarli in ciò che può essere pensato.

In caso contrario questi elementi beta produrranno condizioni emotive disfunzionali e condotte di espulsione.

Immaginiamo di essere aggrediti da sensazioni corporee e da stati della mente indifferenziati che suscitino allarme, smarrimento, incapacità di comprendere ciò che sta accadendo, come un morbo sconosciuto. La mente sarà dominata dal bisogno di “fare”qualcosa (perché i pensieri utili non ci sono). La prima cosa che viene in mente quando siamo in uno stato di disagio è fare qualcosa.

Se gli stimoli disturbanti non hanno luogo, forma e significato occorre fare qualcosa per rimediare a questi stati di indifferenziazione. Ed ecco il taglio sul braccio che si presenta come rimedio.

Il dolore si concentra lì, c’è un luogo per la sensazione ed un’azione che la spiega, il taglio. Cala l’allarme, l’attenzione si ottenebra, per un breve momento c’è la pace. La memoria registra tutto per preparare la ripetizione del gesto.

È il caso di una giovane adolescente sofferente di un’ansia cronica, “da sempre” dice lei. Non sa dare alcuna spiegazione. Dotata di una buona intelligenza, pratica con successo vari sport, buon profitto scolastico senza grande sforzo, nessuna cattiva abitudine, mai usato alcol o droghe.

Quando si parla con lei e si cerca di esplorare il suo mondo interno non si trova altro che ansia e depressione. In lei non c’è alcuna spiegazione.

Ciò che ha attirato di più la mia curiosità è stata l’affermazione che l’impulso a tagliarsi può sopravvenire anche quando è tranquilla, “per stare meglio ancora, per ottenere quello stato che ottiene quando si taglia”.

Qui si profila una sorta di dipendenza da uno “stato” che in qualche modo ricorda la condizione che i tossicodipendenti cercano di ottenere con le droghe.

In tal caso si apre l’eventualità di considerare la possibile efficacia del protocollo Miller dell’EMDR impiegato per il trattamento delle tossicodipendenze.

Si potrebbe dire che ad un certo livello di profondità un disagio senza nome, senza sede precisa, asimbolico, accomuni le ragazze che diventano dipendenti, senza uno stimolo evidente, dal fatto di tagliarsi.

È il livello che la Bucci ha descritto come extraverbale e subsimbolico, che Bion descrive come elementi beta capaci, per tale loro natura, di produrre un disagio inafferrabile e non descrivibile, non pensabile.

Mi viene in mente che all’epoca in cui i pazienti poco capivano del male che li affliggeva e analogamente poco capivano i medici, data la scarsità di conoscenze sia del corpo umano che delle scienze che potessero spiegarne il funzionamento, spesso praticavano un salasso al paziente che consisteva nel fare un taglio su un braccio per far fuoriuscire insieme al sangue gli umori “cattivi” che conteneva e che venivano considerati causa del male, pur non avendo una definizione.

Chissà che non sia stato scoperto per caso che molti mali privi di luogo e nome trovassero nel salasso una temporanea collocazione consolatoria analoga a quella delle moderne autolesioniste?

Il fallimento della funzione materna in quello specifico accoglimento dei segnali del bambino afflitto da sensazioni incomprensibili (elementi beta) lascia il bambino stesso in balia di questi stimoli finché, crescendo, non trova un pseudorimedio (autolesionismo, droga, vomito)

Tali madri che falliscono in questa funzione non sono madri “cattive”, sono spesso esse stesse il frutto di unanalogo disagio, persone che hanno scarsa confidenza con le proprie ed altrui emozioni e che vivono il disagio del bambino come qualcosa cui provvedere praticamente senza prima capire.

Sono madri che si affidano ad un manuale di puericultura convinte di non trovare una propria strada ed un proprio linguaggio per i bisogni del bambino, sottostimandosi e sottraendosi dal gioco della relazione che forma la mente di quest’ultimo.

Il lavoro clinico con queste pazienti è molto complicato e lento.

Si potrebbe dire che tutto ciò che la paziente sa di sé e di cui potrebbe informare il curante non serve alla cura, mentre è necessario andare a cercare quei segnali aspecifici che costituiscono l’insieme del disagio che spinge all’attuazione di comportamenti di espulsione.

Per far fronte a questa problematica abbiamo messo in campo tre dispositivi: EMDR, DBT, Mindfulness.

Come prima si è detto l’EMDR è funzionale per rimuovere eventuali memorie traumatiche anche qualora non risultassero dominanti nella produzione del sintomo, ma soprattutto risulta utile impiegare un protocollo, quello di Miller, che contrasti la ricerca dello ”stato” che le pazienti sperano di ottenere tagliandosi.

Tale protocollo si basa sulla Feeling-state theory che pone l’accento sul ricordo di una condizione emotiva piacevole generata da un dato comportamento. Tale ricordo sarebbe alla base della ricerca della ripetizione del gesto.

Qui siamo a valle rispetto al disagio, desensibilizzando ed attenuando il premio della condotta spinta dal disagio conteniamo il sintomo, ma il lavoro deve continuare perché gli elementi beta rimangano. Tuttavia, il contenimento del sintomo può consentire una più efficace attività esplorativa anche da parte del paziente.

Per tale motivo entra in gioco la DBT che ha lo scopo di fornire al paziente delle nuove risorse cognitive, di conoscenza e controllo delle emozioni.

Il paziente acquista una maggiore competenza nell’osservarsi e descriversi contribuendo ad un lavoro clinico più efficace. Si potrebbe dire che si aiuta il paziente a formarsi una mentalità psicologica.

La Mindfulness completa questo lavoro consentendo al paziente di sperimentare un rapporto diverso con il corpo e le sue sensazioni, con i pensieri che possono essere osservati senza farli diventare i nostri padroni.

È un grande passo in avanti fare l’esperienza di osservare i propri pensieri ponendo fra noi e loro una distanza, ancorché piccola. Si apre un grande spazio per la mente.

Una ragazza che si taglia non sa nulla di questo, ma ha bisogno di tutto questo.

 

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