“… L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza

(A. Gramsci, 11 febbraio 1917).

Parte della filosofia di Gramsci si costituisce come una grandiosa presa di posizione contro l’indifferenza e il fatalismo, che nel testo “La città futura” vengono presi di mira in modo passionale.

Non a caso il testo si apre con l’espressione “Odio gli indifferenti”, la quale rappresenta il rovesciamento totale dell’indifferenza, attraverso il profondo sentire. Un tipo di sensibilizzazione che punta ad una presa di coscienza che si fa azione. Il bersaglio è colui che sta alla finestra.

Pensiamo ad un uomo e alla sua propensione a compiere un susseguirsi di atti meccanici. Una vita scandita dalla monotona e stereotipata ripetizione di gesti quotidiani, che non “smuovono” l’animo in alcuna direzione.

A parlare è l’indifferenza, il bersaglio preferito del biasimo sociale, uno stato della mente patologico comunemente inteso come distacco emozionale tra sé e gli altri; una mancanza d’interesse per il mondo alimentata dal desiderio di non essere coinvolti in alcun modo, né in amore né in lotta, né in cooperazione né in competizione.

Un’indipendenza dal carattere negativo: punta a sciogliere qualsiasi legame per evitare un senso di obbligo e l’esposizione a processi di influenza. In altri termini, l’indifferenza soffoca qualsiasi tensione o spinta rivolta verso l’esterno (A. Zamperini, 2007).

Secondo la metafora del “naufragio con spettatore” (H. Blumenberg, 1985), di fronte al crollo altrui nella sofferenza, l’individuo distaccato si mette al sicuro su una riva ben distante dal luogo della tragedia, assumendo la posizione immobile e rassicurante di astante.

L’idea di una persona estranea alle vicende del mondo e ripiegato su sé stesso, diventa simbolo della perdita del senso di comunità e dell’indifferenza che caratterizza molti gravi fenomeni sociali.

La nostra società sarebbe abitata da passanti distratti e non curanti, affetti dall’indifferenza dell’uomo verso l’uomo, dotati di una moralità sempre più incerta e precaria. Una moltitudine di sonnambuli intricati in una sorta di coartazione emozionale e anestesia relazionale.

La moderna figura prototipica dell’indifferenza è, infatti, il “passante”: colui che di fronte alla disgrazia altrui distoglie lo sguardo e se guarda, non vede. Tutto preso da sé stesso e sempre di fretta, trova il suo opposto nella figura del buon samaritano, colui che invece è attento agli altri e pronto a prestare aiuto.

Due figure che certamente non esauriscono la complessa fenomenologia dell’indifferenza. Per riprendere la metafora di malattia: “Quando il male è diffuso e particolarmente difficile da trattare, sono sempre numerosi i dottori che si ammassano attorno al letto del malato”. Sebbene non sempre le analisi concordino sul piano eziologico, forte è il consenso intorno al fatto che si tratti di un “male” da estirpare.

Oggi ci si scaglia, spesso, contro l’esposizione mediatica alla violenza, considerata una condizione che porterebbe gli individui all’assuefazione, rendendo la coscienza intorpidita e l’azione imbrigliata. I Media contribuirebbero a desensibilizzarci.

In questi termini sembrerebbe quasi che il fenomeno dell’indifferenza trovi la sua espressione attraverso forme di causalità esogena che pongono l’individuo in secondo piano. Ma l’indifferente, in quanto tale, non può considerarsi completamente estraneo alla sua condizione. Egli non rimane in un rapporto di esteriorità con essa.

L’indifferenza, infatti, non può essere collocata nella dimensione dell’avere, bensì in quella dell’essere. Non si dice che una persona “ha l’indifferenza” ma che “è indifferente” (A. Zamperini, 2007).

Certamente interpretare questo modo di essere nel mondo abbracciando una prospettiva unitaria rischierebbe di minimizzare la complessità fenomenologica dell’indifferenza che va considerata tenendo conto delle infinite sfumature che la delineano e della vasta gamma di comportamenti, differenti a seconda dei diversi individui coinvolti.

Ma fermiamoci a riflettere e facciamolo mettendo in secondo piano, in questo contesto, le caratteristiche individuali della persona, per soffermarci invece su quei meccanismi invisibili che regolano le relazioni umane e la collettività intera. Meccanismi costituiti da norme, che influenzano la cultura emozionale e il sentire delle persone.

Ma, al di là di questo, veramente l’indifferenza può considerarsi una “malattia” da dover trattare con urgenza? E i distaccati, gli “insensibili”, i “malati” sarebbero così bisognosi di aiuto, nonostante siano spesso riluttanti a riconoscere la propria condizione?

Lasciando dietro di noi la metafora della malattia, che risulta probabilmente incapace di fornire risposte adeguate, bisognerebbe concentrarsi sulla fenomenologia dell’indifferenza e sulla frequenza degli episodi che la riguardano, sulla tipologia di queste non-azioni e dei contesti entro cui si realizzano.

Se l’indifferenza non è una malattia, bensì un copione relazionale che regola il vissuto e l’espressione delle emozioni, non le serve una terapia psicoeducazionale, bensì una trasgressione (A. Zamperini, 2007).

La trasgressione immette cambiamento, una sovversione del canone convenzionale. Secondo questa prospettiva a portare le vesti del “buon samaritano” è il dissidente emotivo, artefice di un’insubordinazione emozionale, ossia di una discrasia tra ciò che sentono in una determinata situazione e ciò che invece dovrebbero provare secondo quanto prescritto dalle norme collettive.

I dissidenti emotivi sono persone capaci di fare i conti con l’effettiva complessità della situazione, lasciandosi coinvolgere da essa. Sono da considerarsi persone capaci di vivere le proprie emozioni, concepite non come meri accadimenti intrapsichici, bensì come risposte personali alle esperienze incontrate. Un sentire che fornisce loro diversi mezzi con cui poter valutare le circostanze e misurare sé stessi, in modo da poter compiere un lavoro emotivo capace di trasformare le emozioni in un “agire”, utile alla gestione e al coordinamento delle relazioni.

Facendo ciò si scagliano contro una forma di economia emozionale regolata da un coinvolgimento interpersonale basato su calcoli ed interessi psicologici. Interagiscono con i propri interlocutori senza seguire formule. E, per questo, sono percepiti come imprevedibili e disturbanti. Perché il copione dell’indifferenza insegna a stare al proprio posto.

Il fenomeno dell’indifferenza ben coglie il respiro della contemporaneità: l’apnea. Un trattenere il respiro per meglio adattarsi alla realtà sociale. Assumere passivamente il solo sentire che l’istituzione e il contesto propongono e impongono.

Accettare la sua grammatica e il relativo vocabolario per assegnare alle emozioni i loro oggetti pertinenti. Imparare a emozionarsi con distacco, e cosa significhi tale vissuto, in un particolare momento storico-sociale, dentro quei luoghi dove è ritenuto utile e desiderabile. Insomma, una riduzione degli individui a ruoli. E una messa tra parentesi della persona (A. Zamperini, 2007).

Cosa vorrebbe dire andare oltre questo conformismo del sentire?

Uscire da queste parentesi vuol dire tentare di comprendere il significato intimo e soggettivo dell’indifferenza. Un modo di posizionarsi rispetto agli altri ma anche nei confronti di sé stessi. In un linguaggio fenomenologico, arrivare alla descrizione di come il singolo sente il suo sé indifferente e come se ne distanzi.

L’opposizione all’indifferenza passa per la lotta ad un processo di identificazione con le circostanze e da un movimento emozionale, di coinvolgimento verso l’altro, che toglie importanza alle categorie sociali, alle “etichette”. Sono anche le emozioni a dare senso ai doveri morali e sociali.

Una società che investe nella promozione di particolari competenze socio-emozionali, come il decentramento da sé, il mettersi nei panni dell’altro, l’empatia e la compassione, è una società che contribuisce al miglioramento della vita collettiva e che lavora per il costituirsi di una condizione necessaria a garantire alla mia persona e a coloro con cui interagisco, la possibilità di agire nella sfera pubblica e privata secondo aspettative di reciproca fiducia.

Emozioni dissidenti possono insinuarsi nel fluire dell’interazione sovvertendone lo stereotipato andamento. Ad esempio, un’attenzione non dovuta verso qualcuno può già essere una pratica dissidente. Gesti che non ambiscono alla notorietà, ma capaci di produrre socialità diffusa. Rendendo meno povera e grigia la quotidianità.

Spesso sbaglia non solo chi fa, ma anche chi non fa qualche cosa” (Marco Aurelio).

 

Approfondimento: Devianza e cultura emozionale: per libertà o per dovere?         

 

Bibliografia

  • Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, il Mulino, Bologna, 1985.
  • Gramsci, Indifferenti, in Le opere, a cura di A. Santucci, Editori Riuniti, Roma 1997.
  • Zamperini, Psicologia dell’inerzia e della solidarietà. Lo spettatore di fronte alle atrocità collettive, Einaudi, Torino, 2001.
  • Zamperini, L’indifferenza. Conformismo del sentire e dissenso emozionale, Einaudi, Torino, 2007.

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