Una teoria molto famosa nell’ambito della psicologia ci insegna che il contatto con l’altro potrebbe essere funzionale ad alleviare il pregiudizio. Ma è sempre così semplice? E che cosa accade nel momento in cui l’altro con cui entriamo in contatto ha “mani di forbici” anziché una pelle morbida e facile da accarezzare?

Si tende a parlare spesso della vista, ad elogiare la poesia di un tramonto o la bellezza di un aroma che carica l’aria di sensazioni. Ma, se ci fermiamo a pensare, l’organo più grande (come dimensione) che abbiamo noi esseri umani è quello da cui dipende il senso del tatto: la pelle.

Attraverso la pelle non riceviamo informazioni solo per quanto riguarda il calore, la morbidezza o la forma di qualcosa. Questa è un confine tra il mondo interno e quello esterno, è ciò che delimita ed allo stesso tempo permette di relazionarsi con il resto del mondo, con l’alterità.

La pelle, se sapessimo ascoltarla, ci offrirebbe un dialogo continuo tra la percezione attraverso cui incorporiamo ciò che esiste al di fuori di noi e il limite che ci permette la costruzione del nostro mondo interno.

La pelle può simbolicamente rappresentare il confine e la distanza che sono alla base della costruzione dell’identità, ma allo stesso tempo anche il superamento di questa frontiera attraverso il contatto.

Ma talvolta il pregiudizio limita la capacità di andare incontro all’altro, di conoscerlo e di avvicinarci a lui. A volte il contatto non basta a superare il pregiudizio, qualcosa ci blocca e diventa difficile accogliere o essere accolti. Perché accade? E perché spesso succede nei confronti di persone che provano un disagio, una sofferenza?

E’ di tutto questo che vorrei parlare, adesso. E vorrei provare a riflettere su questi temi attraverso la magia di una favola raccontata da uno dei grandi maestri del cinema. Perché le mani sono la sede privilegiata del senso del tatto e possiamo parlarne facendoci guidare dalle “Forbici”.

La storia di Edward mani di Forbice la conosciamo tutti.

Siamo in un indefinito sobborgo americano in un tempo non indicato, forse gli anni ’50. La vita scorre per tutti nello stesso modo: la stessa villetta, i giardini tutti uguali, le utilitarie dei mariti che si muovono tutte alla stessa ora per portarli al lavoro, lasciando le mogli a casa a spettegolare. La vita scorre nel modo in cui deve scorrere, o no?

Solo che essere rappresentanti di prodotti Avon non porta grandi guadagni se si fa visita sempre alle stesse persone, proponendo il medesimo tipo di merce. Questo, solo questo spinge Peggy ad allontanarsi dal quartiere e dalla solita routine.

Non appena volta direzione, un lugubre castello, che si trova in fondo all’unica via d’uscita dal centro, si staglia scuro e avvolto da un inquietante fumo grigio, distaccandosi dai colori pastello delle altre case.

E’ là che vive una creatura nata dall’immaginazione e dell’ingegno di un grande inventore che però “non lo ha finito”: è una creatura umana ma gli mancano le mani, al posto delle quali ha grandi e inquietanti forbici.

E’ una favola moderna quella di Edward e, come le altre, il suo linguaggio è potente più di quello di mille libri, poiché ha la capacità di raccontare in forma simbolica a bambini e adulti qualcosa di prezioso. Una favola che io, come molti, ho iniziato ad amare da bambina e ho continuato a farlo da adulta.

Attingere alle favole, come dice Bettelheim, significa trasmettere ai bambini (ma anche agli adulti) che “una lotta contro le gravi difficoltà della vita è inevitabile, è una parte intrinseca dell’esistenza umana, che soltanto chi non si ritrae intimorito […] può superare tutti gli ostacoli e alla fine uscire vittorioso”.

E allora, partiamo dall’inizio, e proviamo a scoprire cosa ci insegna la storia di Edward riguardo ai temi della diversità, del disagio, del pregiudizio e del contatto. 

Il tema delle mani ricorre nel cinema di Tim Burton: mani coperte da vistosi guanti, mani e forbici. Ma perché le forbici? Che cosa potrebbero significare?

Forbici come simbolo della diversità

La prima cosa che notiamo all’inizio del film è la scelta del regista di ritrarre in modo stereotipato la tipica famiglia americana. Il panorama di colori pastello risulta innaturale e combina cliché e stili cinematografici dagli anni cinquanta agli anni ottanta.

Elementi posti al fine di giocare un contrasto importante con il nero castello gotico, la casa di Edward.  E’ Peg che offre allo spettatore questa lettura affacciandosi al finestrino dell’auto per  prendere visione della strada che sovrasta il sobborgo. E’ attraverso questa immagine che la magistrale pellicola di Tim Burton ci introduce nel tema della diversità.

La parola “diverso” deriva dal verbo latino divertere che propriamente significa volto altrove, volgere in altra parte, allontanarsi. La radice di questa parola non ci suggerisce una sostanziale differenza ma piuttosto lontananza o ancora propensione a dirigersi verso una direzione alternativa.

Edward è diverso, lo è il suo mondo gotico all’esterno, ma creativo, sensibile e ricco all’interno. E’ diverso il suo aspetto, la sua tuta, la sua pelle ferita, le sue forbici. Lo stesso regista ha spesso confessato di sentirsi molto simile al suo protagonista per la sua particolarità, creatività e la sensazione di non riuscire ad uniformarsi agli altri.

Questo film, questa favola, ci offre la possibilità di vivere attraverso Edward quello che spesso accade a chi, per qualche motivo, si trovi a sentirsi così: diverso e propenso a non conformarsi alle regole della gran parte della società.

Dopo averlo trovato, mossa apparentemente dalla compassione, Peg decide di adottare Edward. Ma il suo è solo un atto di pietà?

Presto scopriamo che si tratta di questo solo in parte e che la donna è mossa anche da qualcosa di molto più profondo se ci riflettiamo bene, qualcosa che spesso opera ad un livello non consapevole.

Il pregiudizio è, secondo la psicologia, una valutazione rigida verso un oggetto. Questa si lega all’analisi di elementi fortemente stereotipati e risulta impossibile spesso da modificare.

Il motivo di questa difficoltà al cambiamento si lega al bisogno di proteggere sé stessi, la propria identità e le proprie rassicuranti convinzioni. Per questo il nuovo, il diverso lascia emergere una paura ed è percepito come una potenziale minaccia .

Il pregiudizio ha molti ruoli ed è difficile da scardinare. Può servire per incanalare la rabbia per una determinata situazione verso un “capro espiatorio”, può muovere da insicurezze e debolezze, può rappresentare un’ancora di certezze e contrastare l’imprevedibilità della vita.

Quello che ci troviamo a dover ammettere, ad un certo punto, è che anche questo muove Peg, così come da vita a molti comportamenti nella vita reale. Per questo cerca di uniformare Edward al modo di vivere della sua famiglia offrendoci scene impareggiabili come quelle dei numerosi tentativi di coprire le sue cicatrici con i tonici e le creme Avon o quelle in cui cerca di vestirlo e farlo mangiare con forchette e coltelli!

Sono tutti quanti tentativi di mascherare la diversità, di far finta che non esista. E la stessa cosa accade ai vicini in quella che inizialmente sembra una sorta di integrazione, che però crolla al minimo accenno di rischio di rottura dell’equilibrio preesistente.

Nel 1954 Allport formulò la nota teoria del contatto. Il pregiudizio e la discriminazione emergerebbero dalla mancanza di conoscenza verso i diversi. Se alle persone venisse data l’opportunità di incontrare persone diverse, scoprirebbero che molti pregiudizi e stereotipi sono errati e migliorerebbero i loro atteggiamenti.

Cosa accade allora nel caso di Edward? Perché questa teoria sembra essere vera inizialmente ma la situazione degenera ad un certo punto? Cosa ci insegna questa storia?

Le forbici come simbolo della “mostruosità” e del disagio

Come abbiamo visto il richiamo al mondo gotico è importante nella favola di Edward. E se proviamo a pensarci bene, va molto oltre l’immagine del castello antico e oscuro in cui il ragazzo ha preso vita.

La sua nascita risale alle mani sapienti di un inventore che ha dotato una delle sue preziose macchine di un cuore. Una similitudine questa che ci riporta rapidamente ad una delle creature più note del mondo gotico, quella generata dal dottor Victor Frankenstein e da molti chiamata “mostro”.

Entrambi sono stati creati tramite esperimenti lungimiranti ma poi abbandonati dal loro stesso creatore. Edward, come la creatura di Victor, è rimasto solo proprio nel momento in cui il suo inventore stava per concedergli il dono delle mani.

Le mani, il suo strumento di contatto con il mondo, la possibilità di accarezzare, di prendere in braccio una ragazza, di sfiorare un amico, di usare coltello e forchetta, di non ferirsi.

Edward non porta alla luce solo l’embrione della diversità, della sensibilità, della tendenza ad andare oltre le convenzioni. Lui rappresenta anche colui che non riesce a comunicare, non riesce a non ferirsi, non riesce ad entrare in contatto per paura di far male o farsi male. Edward, come la creatura di Frankenstein, incarna molti aspetti della sofferenza e del disagio psichico.

E’ stato abbandonato, lasciato solo poco dopo la sua nascita e questo rappresenta un trauma dei più difficili da superare, simbolicamente espresso tramite quelle inquietanti forbici.

Queste ultime potrebbero quindi essere viste come simbolo di un disagio profondo legato ad un trauma importante di abbandono a seguito del quale Edward non sa come muoversi senza ferire o ferirsi.

E’ spesso questo ciò che accade a chi prova disagio, a chi purtroppo conosce quel tipo dolore che difficilmente si riesce a spiegare nei libri di psicologia e che viene così ben descritto, invece, in questa meravigliosa favola.

Edward, come la creatura di Frankenstain hanno vissuto il rifiuto, l’abbandono, l’isolamento e non riescono ad entrare in contatto con il mondo. Così vivono le conseguenze del pregiudizio simbolicamente rivolto verso il loro aspetto fisico, ma legato alla difficoltà ad aprirsi a chi porta con sé un passato difficile e mette alla prova nel tentativo di evitare nuove sofferenze.

Ecco perché non basta un semplice contatto per lasciar entrare Edward nella comunità, ecco perché dall’incontro scaturirà l’esclusione totale con l’allontanamento finale e l’esilio in solitudine. I meccanismi del pregiudizio sono molto complessi e la teoria di Allport ci offre alcuni degli spunti interessanti che si ritrovano nella psicologia a questo proposito.

La sua tesi ci porta a riflettere sul fatto che solo il contatto, ma quello vero e autentico può in alcuni casi essere un deterrente del pregiudizio. Ma deve essere un contatto umano profondo o prevarranno gli altri bisogni cui il pregiudizio si lega.

Ecco perché solo una persona mostra di aver superato le barriere della diversità, della mostruosità e del dolore di Eward. E’ solo la figlia di Peg, Kim, che andando oltre alle forbici abbraccerà Edward in una delle scene più note del film.

Dopo che avergli chiesto: “Stringimi” ed essersi sentita rispondere “Non posso”, lei sposta le sue braccia e lo avvolge con le proprie scatenando le lacrime di ogni spettatore un po’ sensibile.

E’ questo che può sconfiggere il pregiudizio: il vero contatto, quello fatto di conoscenza e accoglienza. Il contatto in cui il limite dell’altro diventa uno stimolo per arrivare a lui, per comprenderlo e per abbracciarlo.

Quel contatto che riconosce nella diversità la meraviglia di qualcosa che può portare un arricchimento, un cambiamento, anche quando la diversità è data dal disagio o dal dolore. Perché oltre al dolore si dovrebbe essere sempre capaci di riconoscere l’essere umano, la persona, con quelle caratteristiche che le appartengono indipendentemente dalla sofferenza.

E’ questo che gli psicologi fanno spesso: ricordare a chi soffre che oltre a quel male ci sono obiettivi, passioni, relazioni, amori, preferenze e mille altre sfaccettature.

E qui è Kim a farlo, ad andare oltre alle forbici nel riconoscere un ragazzo diverso e in difficoltà, ma capace di sentimenti profondi e dotato di una mente creativa che va oltre la standardizzazione della società.

E’ questo il suo più grande abbraccio verso Edward, è questo che, nonostante lui venga relegato di nuovo nella solitudine, lo spinge ancora verso gli altri attraverso il dono della neve. Quest’ultima rappresenterà infine il suo modo di rimanere in contatto, di comunicare al mondo la sua esistenza, anche se da lontano.

Infine per riflettere su tutto questo vi lascio con le parole del libro “La padronanza dell’amore” di Don Miguel Ruiz:

“Immaginate di vivere su un pianeta dove tutti abbiano una malattia della pelle. Da due o tremila anni la gente soffre della stessa malattia: i loro corpi sono coperti di piaghe infette, che fanno male se qualcuno le tocca.

Naturalmente tutti sono convinti che quella sia la normale fisiologia della pelle. […] Riuscite a immaginare come si tratterebbero tra loro quelle persone? Cercherebbero di proteggere le loro ferite, non toccandosi quasi mai tra di loro, perché sarebbe troppo doloroso. […]

Se riuscite a immaginare questo, forse comprenderete che un visitatore proveniente da un altro pianeta avrebbe la stessa esperienza cercando di entrare in contatto con gli umani. Ma la nostra pelle è ricoperta di piaghe.

Il visitatore extraterrestre scoprirebbe che la mente umana soffre di una malattia chiamata paura.[…] le manifestazioni della paura sono emozioni come la rabbia, l’odio, la tristezza, l’invidia e l’ipocrisia. In una parola, tutte le emozioni che fanno soffrire l’umanità.

Quando la paura diventa troppo grande, la mente razionale comincia a funzionare male e non sopporta più tutto il veleno. Nei libri di psicologia questa condizione è definita come malattia mentale, schizofrenia, paranoia, psicosi… Ma l’origine di tutte queste malattie è il fatto che la mente è così spaventata e le ferite sono così dolorose, che sembra meglio rompere i contatti con il mondo esterno.”

E, infine, vi chiedo di riflettere andando oltre l’etichetta di “malattia mentale” che di per sé può confonderci: a chi di noi non capita mai, anche solo in una piccola sottile situazione, di sentirsi spaventato e riconoscere, per un attimo, al posto delle sue mani un paio di forbici? Se riuscissimo a pensarlo avremmo già fatto mille passi verso l’altro.

ADESSO COSA PENSI?