In un articolo precedente abbiamo tentato di far luce sul tema delle dipendenze centrandoci sull’aspetto comportamentale, tentando di denotare una linea di confine fra uso, abuso e dipendenza. Ci lasciammo con un interrogativo finale, che rimanda allo scenario attuale:

esistono sostanze più pericolose delle altre, indipendentemente dal livello di gravità raggiunto dal comportamento di dipendenza?

Indubbiamente sì. Esistono sostanze il cui consumo anche in poche occasioni può determinare l’instaurarsi di una dipendenza fisica, come nel caso dell’eroina. Gravi intossicazioni da acidi lisergici possono, in singola dose, sconvolgere così profondamente la chimica cerebrale da portare il soggetto verso forme di psicosi.

D’altro canto, anche la valutazione di questo fattore di rischio deve essere accorta: anche sostanze che di base non producono effetti sconvolgenti, come la cannabis o l’alcol, se utilizzati con costanza e in grandi quantità possono produrre effetti particolarmente negativi.

Sì ma fa meno male la cannabis dell’alcol vero?

Se è vero che gli effetti sul piano fisico dell’alcol a breve, medio e lungo termine sono più vistosi e rappresentano un rischio importante per la salute fisica, anche la cannabis presenta i suoi rischi, in particolare per quanto riguarda lo sviluppo cerebrale. 

L’etanolo, principio attivo della sbronza, è una sostanza neurotossica, difficile da smaltire, la cui presenza in elevate quantità produce effetti deleteri sulle strutture cortico-sottocorticali dell’encefalo (ippocampo, strutture basali ma anche la corteccia parietale e orbitofrontale), tutte strutture deputate alla memoria, alla programmazione di movimenti fini e il controllo comportamentale.

La cannabis invece possiede due principi attivi: THC e CBD, i cui pattern di interazione con i cannabinoidi endogeni del cervello sono quasi opposti. Il THC, il principio psicoattivo, si lega a recettori cerebrali che attivano network dopaminergici che “attivano” il cervello e sono responsabili delle esperienze simil-allucinogene e di iperattivazione di percezione e di pensiero tipiche del fumo della marijuana (benché ci siano anche qui importanti differenze individuali su come si reagisce alla sostanza).

Il CBD ha un effetto invece tendenzialmente rilassante, agendo sui circuiti che regolano lo stato di allerta fisico e mentale. Anche in questo caso, il CBD può dare esito ad effetti paradosso: la persona, anziché rilassarsi, può finire per agitarsi ancora di più.

Questa è chimica. Fortunatamente l’essere umano è molto di più di una serie di reazioni chimiche e neurobiologiche, ma la complessità di per sé può non essere una risorsa ma un fattore di rischio: di fatto le differenze individuali già citate nel modo in cui ognuno di noi interagisce con la sostanza possono stare alla base di numerosi effetti spiacevoli legati al consumo massiccio di questa sostanza, casi non solo ben documentati ma anche osservati in maniera sistematica e controllata in numerose ricerche.

Cosa ci dice in questa direzione la psichiatria? Dalle ricerche fino ad oggi condotte sul tema emergono questi dati:

  • Il forte consumo di cannabis ad alto potenziale di THC (come la skunk) è maggiormente correlato allo sviluppo di una serie di patologie psichiatriche come disturbi psicotici o simil-psicotici (che non sempre vanno incontro a remissione) e disturbi dell’umore, in particolare depressione e disturbo bipolare.
  • I cannabinoidi, spegnendo intere regioni del cervello legate in particolar modo al funzionamento frontale (aree deputate all’attenzione, al ragionamento e al problem-solving), sembrano ridurre di funzionalità queste aree.

Consideriamo che il cervello è un organo esperienza-dipendente: tanto più lo si usa tanto più si sviluppa, tanto meno lo si usa tanto meno cresce e si potenzia. L’esito di questi processi di “silenziamento” delle aree deputate al controllo attentivo e al pensiero, sul lungo termine, possono portare ad un assottigliamento della materia grigia, che corrisponde, sul piano pratico, ad una diminuita funzionalità.

Ne consegue che un cervello in via di sviluppo potrebbe, in linea di massima, essere maggiormente compromesso che un cervello già sviluppato. Consideriamo che, nonostante le ricerche attuali suggeriscano che processi di neurogenesi e riparazione sinaptica possano avvenire in tutte le età, i neuroni non sono come le cellule staminali o le cellule epatiche: i cambiamenti che avvengono a livello neurobiologico sono piuttosto stabili dopo la fine dello sviluppo e le modifiche cui possono andare in contro sono particolarmente lente.

  • La ricerca non ha dati sufficienti per definire un link causale, ma la clinica in questi ultimi anni ha raccolto diversi casi di psicosi slatentizzate dall’uso della cannabis, in particolare negli adolescenti.

Cosa vuol dire slatentizzare? Vuol dire che qualcosa che non andava c’era già prima del consumo della sostanza, ma a volte anche una sola canna può bastare per portare al peggio. Si parla di persone ansiose di tratto, preoccupate per il loro funzionamento fisico e mentale, a cui la marijuana “sale male”.

Il famoso bad trip non esiste solo per gli allucinogeni purtroppo, e questo fatto è legato alla estrema complessità del nostro funzionamento psichico.

  • Esistono effetti della marijuana che la ricerca in psichiatria ha definitivamente riconosciuto come benefici e terapeutici: la cannabis sembrerebbe apportare importanti benefici nella terapia del dolore, nell’approccio ad alcune condizioni croniche come la sclerosi multipla, nel controllo della nausea e addirittura nel controllo dell’appetito nelle pazienti affette da anoressia nervosa.

Gli studi in questi campi non sono moltissimi ma la fiducia è molta, considerando che gli oppiacei tradizionalmente usati di fronte a queste condizioni acute di sofferenza sono costosi e inducono una forte dipendenza.

In conclusione, non c’è motivo di demonizzare la cannabis come il male assoluto ma sarebbe deontologicamente scorretto da parte della comunità professionale di psicologi e psichiatri sponsorizzarne l’utilizzo, soprattutto in seguito ai dati delle ricerche.

D’altronde, è importante ricordare che tali dati sono ricavati da popolazioni cliniche, che se da un lato rappresentano la tipologia di persone con cui si interfacciano i servizi sanitari, dall’altro non sono precisamente rappresentativi della popolazione generale.

Il dato di buon senso che se ne può ricavare è che, esattamente come per l’alcol, il consumo massiccio di marijuana, in particolare quella ad alto potenziale di THC, rappresenta un rischio importante e confermato per lo sviluppo cerebrale e per l’insorgenza di disturbi psichiatrici invalidanti.

Oltretutto, occorre considerare altri due parametri importanti:

  • Da un lato la tendenza a vivere bad trip potrebbe essere un campanello di allarme. Spesso, soprattutto i giovani, trovano nel consumo delle sostanze una modalità di inclusione gruppale e di creazione di un senso di appartenenza.Bene: ma se la cosa vi fa star male non fatelo, soprattutto considerando che gli effetti a lungo termine possono essere particolarmente fastidiosi.
  • Considerando che anche la cannabis dà dipendenza, che non è un concetto quantificabile con il numero di canne al giorno, occorre sempre considerare la propria condotta con un occhio di riguardo verso a come questa abitudine cambi la propria vita:

su alcune cose sicuramente la migliora (altrimenti è difficile che ne diventi dipendente), ma tutto sommato, mettendo i benefici in confronto con la compromissione della mia quotidianità, ne vale la pena? Non c’è una risposta univoca, ognuno la cerchi per sé, anche se spesso è difficile essere obiettivi.

Parlando in senso ampio non si può pretendere che uno psicologo o uno psichiatra vi dicano che fa bene o che non è rischioso: sarebbe come chiedere ad un oncologo se con una sigaretta al giorno soltanto si rischia il tumore ai polmoni!

Ma allora perché la gente si arrabbia tanto quando la si porta a riflettere sull’altra faccia della medaglia? A mio modo di vedere è un problema largamente di ordine sociale e normativo.

Il moralismo proibizionista cui siamo stati esposti in tanti anni e che permea i progetti di sensibilizzazione delle scuole e delle televisioni (ricordate i drogati con gli occhi bianchi?) non ha fatto altro che allontanare i giovani e le persone dal parere degli esperti.

La comunicazione informativa secondo cui le droghe fanno male sempre e comunque e la marijuana è il primo step verso l’eroina, affermazione di per se non falsa ma indubbiamente gonfiata per mettere soggezione, ha sortito lo stesso effetto delle comunicazioni farlocche sui pacchetti di sigarette: immagini troppo forti, iperboliche, spesso grottescamente divertenti che invece che disincentivare un cambiamento di stile di vita sono solo in grado di innescare il tipo di pensiero autoprotettivo – “tanto a me non capita una cosa così!” – che è tipicamente esito di una comunicazione inefficace.

In aggiunta, attualmente in Italia stiamo attraversando una tale confusione a livello di percezione culturale e di politica sulla liberalizzazione che capisco la frustrazione di fronte a casistiche drammatiche o a informazioni disincentivanti.

L’attuale ordinamento di legge, in parole povere, consente la vendita e l’acquisto di cannabis legale, ovvero con bassissime percentuali di THC. Tutte queste merci possono essere vendute e acquistate per puro scopo collezionistico, una clausola presente sulle confezioni di prodotti venduti e che ne vieta esplicitamente la combustione o il consumo.

Considerate che i semi di marijuana ad alto contenuto di THC possono essere venduti come oggetti da collezione: è chiaro, ma te mica compreresti un seme di skunk per poi coltivarlo e fumarti le cime, ma siamo pazzi?

È beninteso che tale legislazione sia una bufala, che ha come unico effetto quello di aver creato un giro di denaro attorno alla marijuana legale che da una parte non sconfigge la piccola criminalità dello spaccio e dall’altro avvicina sempre più persone ad una sostanza “mutilata” dei suoi effetti psicotropi, che con ogni probabilità non farà che aumentare la richiesta di marijuana per vie illecite.

Fuori dai complottismi del caso, che considerano già la legalizzazione come un mezzo dello Stato per instupidire i suoi cittadini, le persone dovrebbero riflettere attentamente su questo tema di grossissimo impatto sociale, soprattutto a fronte dei dati che emergono dalle ricerche.

Senza la pretesa che la medicina, la psichiatria e la psicologia possano consigliare o quantomeno ben vedere l’uso delle sostanze, campagne di sensibilizzazione basate sulla presentazione di dati semplici e facilmente intellegibili, a mio modo di vedere, potrebbero contribuire a creare più coscienza, meno demonizzazione e meno ipocrisia attorno al fenomeno.

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