Lo scorso sabato 26 ottobre si è tenuto presso la Casa della Psicologia di Milano un evento dal titolo “Essere al sicuro, sentirsi al sicuro. Il senso e l’illusione della sicurezza come basi per la crescita e lo sviluppo”, una riflessione sul tema del senso di sicurezza che ha visto coinvolte diverse voci eminenti della clinica.

Al tavolo erano presenti Maria Silvana Patti (psicologa e psicoterapeuta, responsabile del Servizio diagnosi e terapia del trauma psicologico e codirettrice del Master in Psicotraumatologia presso ARP), Alessandro Vassalli (psicologo, psicoterapeuta e psicoanalista. Socio fondatore di ARP e supervisore clinico del Master in Psicotraumatologia presso ARP), Vittorio Lingiardi (psichiatra e psicoanalista, professore ordinario di Psicologia dinamica presso Università degli Studi di Roma “La Sapienza”) e Fabio Sbattella (psicologo e Psicoterapeuta Didatta, professore di Psicologia dell’Emergenza presso l’Università Cattolica).

A presentare l’evento la dott.ssa Laura Parolin (psicologa e psicoterapeuta, professoressa associata presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca e segretario dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia), candidata alla presidenza dell’Ordine degli Psicologi lombardo con la lista Professione Psicologo, associazione in carica nella consigliatura uscente e che, con la creazione della Casa della Psicologia e con la sua programmazione in ambito formativo e informativo, ha fatto molto nella direzione di creare un movimento di pensiero e di cultura attorno ai temi cari della psicologia.

La scelta di aprire il dibattito psicologico alla comunità appare quanto mai attuale e importante e proprio in questo senso sono rimasto molto colpito dal taglio scelto per parlare del tema: con l’aspettativa di ascoltare considerazioni e ragionamenti definiti attorno alla clinica e in particolare alla clinica del trauma è stato davvero interessante vedere come i clinici partecipanti abbiano invece scelto una direzione discorsiva completamente opposta.

Di fatto il discorso dei clinici si è mosso, inaspettatamente, non a partire dal singolo individuo ma dalla collettività: utilizzando gli strumenti concettuali afferenti alla teoria dell’attaccamento e alla psicotraumatologia è stata condotta una disamina di quelle condizioni sociali che ad oggi influiscono sulla generale percezione di un senso di sicurezza.

Questo discorso è quanto mai attuale ed utile per riflettere sulle derive sociopolitiche del nostro Paese e del resto del mondo, dove si assiste sempre di più allo sviluppo di un atteggiamento di chiusura all’altro e alla diversità e dove sempre di più si assiste alla creazione di barriere.

In Italia i DL Sicurezza rappresentano degli esempi di come la nostra società sia sempre di più caratterizzata da un senso di insicurezza pervasivo, che conduce troppo spesso ad adottare contromisure basate sull’irrazionalità o sull’arroccarsi difensivo sulle proprie posizioni, un’operazione che, a conti fatti, si rivela patologizzante.

Partendo dalla clinica, di che cosa parliamo quando si parla di sicurezza?

Tutto nasce dalla relazione. È insito nella natura dell’uomo il desiderio di poter vivere relazioni significative e nelle quali possiamo sentirci al sicuro. A livello evoluzionistico, il sistema motivazionale che spinge i primati a ricercare l’altro è il sistema dell’attaccamento.

Esso appare indispensabile per la sopravvivenza di queste specie animali, i cui piccoli sono caratterizzati da un prolungamento dello sviluppo fisico perinatale, una misura evolutiva che permette l’apprendimento di pattern di comportamento sempre più sofisticati. E’ perciò essenziale per il piccolo, che vive in uno stato di protratta dipendenza, assicurarsi la vicinanza dell’adulto.

Questi bisogni sono così fondativi per l’essere umano da essere iscritti nella nostra eredità neurobiologica: senza relazioni lo sviluppo dell’essere umano manca di qualcosa, come se in fondo fossimo forniti di quello che Porges chiama codice di amore neurale, che ci caratterizza come esseri umani e ci dà profondità e complessità.

Anche nell’individualismo che caratterizza il nostro tempo non siamo capaci di vivere veramente senza relazioni significative, come ad indicare che abbiamo sempre e comunque bisogno di una relazione nella quale possiamo sentirci sicuri per poter sviluppare l’iniziativa di muoverci nel mondo.

In linea con la teoria dell’attaccamento, di fatto, fin da piccoli impariamo ad esplorare il mondo, a muoverci in autonomia nell’ambiente, solo quando abbiamo avuto l’occasione di sperimentare un senso di sicurezza nelle relazioni più significative. Solo quando mi sento sicuro con l’altro posso sentirmi sicuro con me stesso, ed è in questa direzione che è nell’essere in relazione che l’uomo sviluppa un atteggiamento verso la realtà il più possibile aperto, curioso, assertivo.

Nel trauma, in particolare quello relazionale, ciò che accade è che la persona si trova fuori dalla posizione della sicurezza, come vittima di un costante senso di precarietà. La conseguenza di questo movimento è un immobilismo psichico, come se la persona non sentisse la sicurezza adatta per potersi muovere con sufficiente serenità nella sua realtà esterna e nella sua realtà interna.

Ecco quindi come a livello clinico la persona finisce per rivivere la propria esperienza drammatica, cercando di trovarci un senso, e non riuscendo, in questo logorio, a tornare alla realtà e a modificare i propri pattern di comportamento e di pensiero.

Nell’epoca in cui viviamo, in fondo è come se fossimo tutti traumatizzati: traumatizzati dalla minaccia della precarietà, dalla minaccia della crisi, dalla minaccia del crollo delle istituzioni, dalla minaccia di un altro e di un diverso che sono visti come sempre più pericolosi.

Questi pericoli invisibili e l’assenza di proposte proattive per uscire da questa condizione non fanno che abbattere quell’istinto all’esplorazione e quel bisogno di conoscere che ci caratterizzano come uomini, relegandoci ad una condizione di immobilità.

Le scelte non si fanno per gioia o per piacere ma per necessità, le decisioni professionali o relazionali sono condotte sempre sul male minore e non per vocazione: l’esistenza viene così percepita come minaccia e non come possibilità, estraniandoci dalle relazioni, che davvero ci darebbero la possibilità di crescere e di costruire un senso di sicurezza che sembra essersi perduto.

Così la cura di fronte alla modernità sembrerebbe essere proprio la relazione, l’empatia, l’attenzione per l’altro. Quell’atteggiamento accogliente e attento che il terapeuta tiene nel suo studio dovrebbe aprirsi fuori dallo studio come un atteggiamento dell’uomo verso il mondo, con l’obiettivo di ricucire qualcosa che sembra irrimediabilmente andarsi a perdere.

In questa direzione, gli interventi della politica che muovono verso l’alimentazione della paura e del fanatismo appaiono non solo controproducenti a livello sociale ma anche sull’individuo. Se di fatti si è messi nella posizione in cui esistono un dentro e un fuori, ponendo l’attenzione sulle differenze incolmabili fra me e l’altro e non sulle somiglianze il rischio è quello di perdere irrimediabilmente il senso di sicurezza.

L’idea di costruire muri o di chiudersi all’altro appare disfunzionale nella costruzione stessa dell’identità: l’operazione di erigere un muro, di fatto, presuppone spesso la presenza di una paura che il nemico, in realtà, sia già dentro, preludendo ad una deriva paranoide in cui è del tutto esclusa la possibilità di sentirsi al sicuro con se stessi.

Operazioni sociopolitiche come il DL Sicurezza vanno a perdere in questo modo l’idea fondativa alla base della nostra umanità: la costruzione del senso di identità non si fonda sull’esclusione ma sull’inclusione, l’integrazione delle differenze e il dialogo fra le parti, tutti movimenti relazionali di cui Jessica Benjamin fa menzione nel tema del riconoscimento reciproco.

Ma allora che cosa si può fare per ritrovare il senso di sicurezza a livello di comunità? L’operazione, in controtendenza rispetto a ciò che si assiste attualmente, sarebbe quella relazionale, rifacendosi ad un’antica idea di protezione che passa imprescindibilmente dalla presenza dell’altro e dalla sua inclusione all’interno di uno spazio di fiducia.

Si ricorda in questo senso l’etimologia della parola “proteggere”, dal latino pro – tegere, ovvero “coprire per te”: l’immagine da cui il termine stesso nasce è quella della falange macedone, in cui ogni soldato brandiva in una mano il giavellotto e nell’altra lo scudo con cui poteva coprire il proprio vicino di schieramento nel momento dell’attacco.

Questa immagine rimanda immediatamente un senso di circolarità della sicurezza, che è possibile solo nella relazione con l’altro. Ecco perché appare sempre più importante, in un momento storico di chiusura e di individualismi, rilanciare con il dibattito, la discussione pubblica, la promozione e la validazione di modelli di comportamento efficaci e, soprattutto, ribadendo l’imprescindibilità del rispetto dei diritti umani, che suggellano il diritto dell’uomo, fin dall’infanzia, a godere della propria vita sperimentandosi in un contesto di sicurezza.

Incontri come questo sono davvero preziosi per gli psicologi, che hanno un occasione di “aprire le finestre dei loro studi” e di affacciarsi alla realtà sociale e alle problematiche più contemporanee. Ma sono incontri preziosi anche per i non psicologi, e la speranza è che dibattiti come questi siano sempre di più aperti, promossi e seguiti dalla collettività.

Affrontando la chiusura e i deserti della relazione facendo cultura, facendo rete e riscoprendo la nostra appartenenza alla comunità.

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