In che cosa siamo diversi dalle scimmie? Seduto nel mio studio su una poltrona da ufficio mi guardo attorno: sul tavolo il telefono, la sigaretta elettronica, alcuni biglietti da visita, il blocchetto delle ricevute e un libro. È “Diventare Umani”, di Michael Tomasello, edito Raffaello Cortina.

Tutto intorno a me, ciò che faccio (ad esempio scrivere), i pensieri che sto pensando, gli oggetti che mi circondano mi ricordano che nel mondo animale, io faccio parte di una élite. Un ristretto gruppo di primati – gli esseri umani, appunto – che a un certo punto ha cominciato, marzullianamente, a farsi domande e a darsi (o fabbricarsi) delle risposte.

Di tutte le cose attorno a me e dentro di me non ne esiste una la cui origine si possa far risalire ai nostri irsuti progenitori. Non il cellulare, l’agenda, le scarpe, i pantaloni o il fatto stesso di pensare in parole, o di porsi questa domanda. Non il fatto di scrivere, per altri, un articolo, non il fatto di raccontare o condividere informazioni.

Ma se nessuna di queste cose risale alle scimmie, quali sono (se ce ne sono) quelle che mi definiscono chiaramente come essere umano? Quali sono le caratteristiche psicologiche che mi rendono umano, ed in quanto tale simile a tutti gli altri esseri umani, e diverso dalle scimmie antropomorfe?

È proprio a questa domanda che Michael Tomasello prova a rispondere, con un libro ponderoso e non semplice (ma come poteva essere altrimenti?) infarcito di una succosa varietà di prove sperimentali ed empiriche.

Cerca le risposte evitando alcune trappole: di fronte al rischio di psicologizzare tutto, riconosce l’importanza delle predisposizioni biologiche dell’uomo. Ma sull’altro fronte evita lo scivolone del riduzionismo biologicista vedendo certe abilità umane in sviluppo progressivo all’interno delle relazioni con altri esseri umani.

Le relazioni, già. Come a dire che per ogni seme, ci vuole il terreno adatto e una mano amorevole che innaffia. E cosa caratterizza le relazioni umane? La collaborazione, per esempio.

Le persone sono naturalmente portate, a partire da una età molto precoce dello sviluppo, a collaborare fra di loro per raggiungere un obiettivo comune, e poco dopo a sviluppare il senso di equità necessario per spartirsi gli utili.

L’idea che la collaborazione sia un tratto distintivo dell’essere umano, nel senso che lo distingue dai suoi cugini di primo grado, i primati, che sono invece dotati di competizione ma molto meno di collaborazione, non solo ci restituisce l’immagine di un uomo, come direbbe Sartre, “condannato ad essere libero” ma anche un interessante contraltare all’ideologia economica della competizione come unico motore di crescita e di sviluppo.

Se è vero che quest’ultima funziona come un propulsore a correre meglio e più velocemente, da sola non basta a creare le Piramidi o i viaggi lunari, ma neanche la bomba atomica o la bonifica di una palude.

Ma c’è un altro motivo per cui trovo il libro di Tomasello prezioso e ricco di idee e informazioni. Ho già specificato qui che trovo limitante un approccio di studio alla comunicazione verbale completamente espropriato dal contesto in cui quella lingua è parlata.

Ora, il sottoscritto collabora come psicoterapeuta sistemico/strategico in un servizio che fornisce, come prima finalità, i trattamenti più avanzati per la riabilitazione terapeutica delle sindromi afferenti al cosiddetto “spettro autistico” (link).

In questo ambito, lo sviluppo delle possibilità comunicative in senso ampio (quindi verbali, non verbali e paraverbali) è di primario interesse. E lo è, da un punto di vista sistemico, in quanto tali capacità entrano a far parte di reti relazionali complesse, che come ragnatele vibrano tutte per effetto della più minuta oscillazione di un loro angolo più remoto.

Il problema di una teoria come quella di Chomsky è, da questo punto di vista, che lascia poco spazio (e senso) all’intervento terapeutico/riabilitativo: se l’origine della lingua è fondamentalmente genetico, c’è poco da fare, alla genetica non si comanda.

Ma la teoria di Tomasello costruisce una complessa antropologia dell’ampliarsi delle capacità comunicative in età dello sviluppo, restituendo al contesto (oltre che, naturalmente, ai fondamenti biologici) la sua dignità.

Con le parole dell’autore “Le capacità di maturazione sono passive finché non sono usate in scambi con l’ambiente. È quello che i bambini sperimentano e imparano durante questi scambi strutturati nella maturazione […] che dà impulso all’ontogenersi”.

L’autore riesce, in altre parole, a conciliare la maturazione biologica con la costruzione (anche sociale) della cognizione umana, e lo fa utilizzando il costrutto, concettualmente molto efficace, di linee di sviluppo.

A partire da una predisposizione biologica l’infante entra a far parte di un mondo sociale che, prescindendo dalle differenze culturali, tende ad avere alcuni tratti in comune in ogni gruppo sociale umano.

Nella molteplicità di relazioni che il bambino vi stabilisce, raggiunge tipicamente una serie di tappe che insieme costituiscono la via di sviluppo.

La comunicazione tipicamente umana (sarebbe ingeneroso sostenere che le scimmie non comunichino) si sviluppa a sua volta a partire dalla capacità di congiungere la propria attenzione con quella di un’altra persona (attenzione congiunta), e con la capacità di assumere (o provare ad assumere) la prospettiva dalla quale l’altro vede il mondo.

Entrando nello specifico della dimensione comunicativa, apprendiamo che le grandi scimmie si distinguono a loro volta dalla gran parte degli altri mammiferi per il loro uso intenzionale della comunicazione gestuale.

Ma negli esseri umani la comunicazione gestuale si evolve piuttosto precocemente in varianti tipiche, basate su una precoce spinta cooperativa.

Il gesto indicatore, con cui i bambini di un anno cominciano ad additare a un adulto significativo degli oggetti, ha così tre motivazioni possibili, ma tutte cooperative: chiedere aiuto (perché mi aspetto che l’altro me lo fornisca), offrire informazioni utili (condivisione di dati) e l’espressione di un atteggiamento (con la speranza che l’altro lo condivida).

Inizia così, a solo un anno di età, un lungo (in termini di fasi, ma non di tempo) percorso che porterà il bambino, nell’arco di qualche anno, a maneggiare con destrezza la sua lingua madre.

Non è un caso se alcuni (vedi Rogers e Dawson, 2010) hanno visto nel modello di sviluppo della comunicazione di Tomasello un utile complemento all’intervento tipicamente utilizzato con i casi di autismo, l’A.B.A. (Applied Behaviour Analysis).

E così, nel caso della comunicazione, i bambini di sei mesi mostrano, in eredità alle grandi scimmie, dei movimenti del corpo ritualizzati, come il gesto di allungare le braccine verso la madre come richiesta di essere presi in braccio.

Attorno ai nove mesi compare il gesto indicatore con l’intera mano, come richiesta ritualizzata di avere porto l’oggetto dall’adulto.

Verso il primo anno di età, però, i bambini cominciano ad indicare oggetti fuori dalla loro portata anche semplicemente come un modo per direzionare l’attenzione dell’adulto verso quegli stessi oggetti, o come un modo per condividere un atteggiamento (ad esempio, entusiasmo o sorpresa) verso qualcosa: e qui siamo già oltre l’eredità biologica delle scimmie, e cominciamo a dirigerci verso una comunicazione tipicamente umana.

Tali gesti possono anche avere una funzione informativa: il bambino desidera, in altre parole, condividere una informazione con l’adulto, senza ulteriori richieste o interessi strumentali.

Tutto ciò vale, naturalmente, per i bambini autistici quanto per gli altri, sebbene questi ultimi incontrino maggiori difficoltà ad superare con successo ogni passaggio: impostare scambi arricchenti e che “danno impulso all’ontogenesi” è quindi uno dei compiti della riabilitazione.

L’intersecarsi complesso delle variabili genetiche e contestuali dà ragione dell’incredibile arcobaleno di possibilità comunicative e culturali dell’uomo, come anche della portata delle sue conquiste. Per ogni seme, ci vuole il terreno adatto e una mano amorevole che innaffia.

 

Riferimenti bibliografici

Rogers, S. J., & Dawson, G. (2010). Early start Denver model for young children with autism. New York, NY: The Guilford Press.

Tomasello, M. (2019). Diventare umani. Milano: Raffaello Cortina.

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