“Abbiate fiducia nei bambini e nei piccoli che stanno crescendo!”

Psicoterapeuta dell’infanzia e della famiglia, docente di psicologia dinamica al Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pavia, parte della Consulta (laica) di Bioetica, autrice di numerose pubblicazioni e collaboratrice di prestigiose riviste; Silvia Vegetti Finzi ha raggiunto molti traguardi nella propria vita.

Successi forse difficili da immaginare all’inizio della sua storia, quando la piccola Silvia era solo una bambina mezza ebrea, cresciuta senza genitori.

La sua autobiografia Una bambina senza stella. Le risorse segrete dell’infanzia per superare le difficoltà della vita” è testimonianza, invece, che nei piccoli esistono capacità che, se lasciate libere, sanno fare del dolore un trampolino di lancio.

Un libro che sprona, a suon di ricordi, ad avere fiducia nelle potenzialità dei bambini. Un monito agli adulti che hanno paura di affidare i propri figli al mondo.

Dalla posizione di membro dell’osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, la professoressa Vegetti Finzi critica il contesto educativo attuale e propone alcune riflessioni.

Spesso le scelte di insegnanti, genitori ed educatori si rivelano inadeguate.

Gli adulti sono spaventati, più che responsabili, della crescita dei loro bambini. È l’inquietudine a permeare inconsapevolmente i loro progetti educativi.

Affrontano la realtà con insicurezza piuttosto che con intraprendenza. Pensando di proteggere i piccoli, si sostituiscono a loro protraendo la loro infanzia, anziché sostenerli nei loro progressi.

Quello che accade è che la paura prende il posto della fiducia nelle loro risorse segrete.

“Anche il dolore serve a crescere. Non dobbiamo avere paura che i bambini siano infelici”

L’adulto pensa alla crescita del bambino come ad una freccia che procede sempre dritta. Decenni di studi e ricerche, invece, affermano che in un normale processo di sviluppo sono presenti anche blocchi, involuzioni e regressioni.

I grandi sono sorpresi e turbati da questa non linearità, vorrebbero che tutto procedesse speditamente sempre in avanti. Non riescono ad attendere. Bauman affermava che “attesa” oggi è diventata una parolaccia. Forse perché, quando si presenta un imprevisto, il permanere nell’incertezza amplifica la sensazione di inadeguatezza e impotenza.

Pertanto, quando c’è qualcosa che non va, l’adulto si spazientisce e cerca subito una soluzione. In questo modo egli prende il posto del bambino, togliendogli la possibilità utilizzare le proprie risorse e di proseguire nel proprio naturale processo di maturazione.

“I bambini sanno abbandonare le difficoltà perché si proiettano al futuro, quando vengono lasciati guardare la vita con il loro sguardo”

Non ci si diverte più a vedere un bambino che gioca. Ci si preoccupa. Potrebbe picchiare la testa là, potrebbe cadere lì, potrebbe farsi male. Sono tutti ragionevoli rischi e, giustamente, ci si adopera per prevenirli. Spesso, però, si finisce con il calare la cosiddetta “campana di vetro”. Ma quali sono le conseguenze?

I bambini di oggi sono molto colti rispetto alle generazioni precedenti. La quantità e la facilità con cui possono accedere alle informazioni sono davvero straordinarie. Basta un clic. C’è un altro tipo di conoscenza che viene però a mancare a causa di quella campana: quella esperienziale e, in particolare, quella corporea.

I bambini non conoscono il rischio. Non sono liberi di circolare nello spazio, di esplorare e di sbagliare. Li proteggiamo da pericoli che non possono vedere, perché glieli abbiamo solo raccontati, ma non li hanno sperimentati.

Non c’è consapevolezza del proprio corpo, perché non ne conoscono i limiti. Non sanno se sono capaci di arrampicarsi su un albero, se riescono a spostare un masso, quanto possono correre fino a perdere il fiato. Abbiamo la prima generazione che non conosce le ginocchia sbucciate.

In questa società iperattiva si ha paura del tempo vuoto.

Le giornate vengono strutturate e saturate di impegni: scuola, doposcuola, sport, oratorio, corso di musica. Ci si potrebbe domandare se questa necessità di occupare il tempo risponda più ad un bisogno adulto. Ad ogni modo, ogni istante deve essere sfruttato per fare qualcosa.

Si pensa al bambino e alla sua mente come ad un imbuto da riempire, senza considerare che a volte è utile e necessario non fare proprio niente.

“Il bambino che non fa niente in realtà sta psicologizzando. […] Il tempo vuoto serve per ideare, per creare, non solo per imparare”.

Psicologizzare significa, infatti, assimilare un’esperienza nella propria mente.  Lo sviluppo di questa attività psichica richiede, talvolta, la sospensione da altre attività. È quello che, in parte, potremmo comunemente chiamare “riflettere”.

Occupare tutto il tempo con “il fare” toglie la possibilità di maturare “il pensare”. Anche di più, toglie la possibilità di essere creativi. Sono i momenti in cui i piccoli non sono impegnati a prendere idee preconfezionate quelli in cui possono iniziare a crearne delle loro.

“Anche l’amore può essere eccessivo e soverchiante”

Sì, è possibile amare troppo. Spesso la famiglia riversa aspettative molto elevate sui figli. Scambia il “volere il loro meglio” con il “chiedere loro di essere meglio”. I bambini e, in particolare, gli adolescenti percepiscono questo peso come delle promesse, spesso contraddittorie, a cui adempiere.

Allora succede una cosa senza precedenti: una volta nella mente degli adolescenti il super-io risuonava come un “non posso – non devo”, un no autoritario del padre patriarca. Ora il non posso è un “non ce la faccio – non sono all’altezza”.

I ragazzi sentono di non essere come dovrebbero, di non essere adeguati, di non valere. Non è più il malessere dell’adolescenza di una volta; quello che succede non è la ribellione, il conflitto e l’aggressività.

L’adolescenza di oggi è caratterizzata dalla rinuncia, il gettare la spugna.

In una società competitiva, i genitori vorrebbero crescere dei figli armati per affrontare il mondo. In realtà quello che succede è che in Europa il 26% dei ragazzi tra i 14 e i 24 anni è la generazione “né né” o “niet”, quelli che non studiano e non lavorano.

Quelli che si chiudono in camera e vagano nello schermo, che fuggono in una realtà virtuale. Non si sentono accolti, non credono che esista uno spazio in cui poter abitare.

Il genitore non si accorge subito di questo disagio, perché non è palese come la ribellione. Anzi, si rincuorano di non avere figli con troppe pretese. Solo successivamente si rendono conto che questo ritiro è la progressiva morte del desiderio.

“Il desiderio nasce dall’accettazione di una mancanza, di ciò che non c’è più e non c’è ancora. Se questa accettazione diventa passiva abbiamo un’inettitudine al vivere che è uno dei più grandi problemi terapeutici di oggi”.

Il primo desiderio dei bambini è quello dell’autonomia, di poter affermare “ce la faccio da solo, io posso”.

Come fare allora? Armarsi di quei “no che fanno bene”? Diventare fan del “sì, si può fare tutto”?

La professoressa Vegetti Finzi ci dà un suggerimento, usare il “SÌ, MA”.

SÌ, riconosco il tuo bisogno, so che ce la puoi fare, so che ne hai le capacità.

MA ci sono delle condizioni che devi rispettare, delle clausole del vivere comune, dei rischi da considerare, dei limiti che si possono contrattare.

Gli adulti, i genitori, gli insegnanti, gli educatori, devono iniziare a prendere consapevolezza delle paure che guidano le loro scelte educative e sostituirle con la fiducia.  Devono avere uno sguardo di speranza sui bambini e avere talvolta il coraggio di aspettare.

Devono essere capaci di lasciare che le potenzialità emergano con i loro tempi ed essere pronti a riconoscerle e sostenerle nella loro espressione. Forse così avremo bambini con le ginocchia sbucciate, ma un po’ più felici.

“Se c’è qualcosa che desideriamo cambiare nel bambino, dovremmo prima esaminarlo bene e vedere se non è qualcosa che faremmo meglio a cambiare in noi stessi”

Carl Gustav Jung

CONDIVIDI
Articolo precedenteIl vaginismo: quando intimità fa rima con dolore
Articolo successivoComplessità e Psicoterapia – La terapia familiare e la Scuola di Milano
Serena Carpo
Sono Serena (di nome, di fatto ci provo). La scelta di diventare psicologa è nata dalla mia curiosità verso la straordinarietà della mente umana e dall’incapacità di rassegnarmi all’idea che la sofferenza sia qualcosa di inutile. Mi sono laureata in Psicologia Clinica, dello Sviluppo e Neuropsicologia presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Il mio futuro professionale è un work in progress. Il tirocinio presso la neuropsichiatria infantile dell’ASL della mia zona (un paese lacustre del Piemonte) ha fatto nascere in me il germe di un progetto: rendere il diritto alla salute, fisica e mentale, un bene accessibile e di qualità. Svolgo un’attività di volontariato che, oltre a costituire un grande arricchimento umano, considero come un vero osservatorio dei bisogni del territorio e un’ottima palestra di ascolto. Conosco la lingua dei segni (LIS), amo scrivere, disegnare e pensare in modo creativo. Credo in diverse cose, tra cui una psicologia vicina alla persona, che abbia il rigore della ricerca e la veridicità della clinica, che sia un lavoro fatto con passione e che non si dimentichi di essere a servizio dell’altro. Contatti: s.carpo@hotmail.com

ADESSO COSA PENSI?