Fatti, riflessioni e consigli dai miei primi anni di pratica clinica.

Antonio

Ha 41 anni. Chiede aiuto nell’estate del 2016 per una crisi depressiva. Ha passato un periodo molto difficile: diverse difficoltà lavorative ed una brutta malattia che ha colpito prima la madre e poi il fratello.

Ha reagito concentrandosi su tutto quello che c’era da fare, era lui che aveva in mano la situazione ospedaliera, che sentiva i medici, che organizzava appuntamenti e cure.

Si descrive come un “carroarmato”, c’erano molte cose da fare, poco tempo da perdere, lui era il riferimento familiare, quello che aveva la situazione sotto controllo e dava sicurezza a tutti quanti. Le condizioni fortunatamente migliorano, l’emergenza passa.

Circa un mese dopo ha uno screzio con un collega di lavoro, nulla di particolarmente grave. Collassa: non riesce più a dormire, a casa controlla tutto più e più volte (serrature, luci, rubinetti…), perde lucidità a lavoro e si chiude sempre di più.

Le sue giornate passano tra sveglia, ufficio, cena a letto e sonno. Iniziamo un lungo lavoro che porta a galla ed analizza la centralità di un suo meccanismo netto di allontanamento e scissione delle emozioni dolorose.

Emerge come il suo sentire ed il suo dolore non siano mai stati comunicabili agli altri, come vi fossero sempre cose più importanti e degne di considerazione: sistemare le cose concrete, non lamentarsi (“sa quanti problemi davvero veri hanno le persone in giro?” ripeteva spesso).

Lentamente nel corso di tre anni passiamo attraverso ad un intenso periodo di rabbia e dolore; per quello che è successo, per l’essersi messo sempre in secondo piano, per l’essere stato così severo ed inflessibile verso se stesso ed essersi perso lati gioiosi e anche dolorosi della vita.

C’è una lunga ricerca delle parole, di un suo linguaggio, di espressioni che possano soddisfarlo nel descriversi. Cade quella che lui definisce una corazza e ne segue un lungo periodo di nudità, in cui si sente particolarmente fragile ed indifeso.

In questo periodo è però sempre presente la sensazione che ciò che si sta finalmente verificando è frutto della sua sincera interiorità, che sebbene dolorosa e confusa, questa inizi ad esprimersi priva degli impedimenti nevrotici prima presenti.

I nuovi vissuti cominciano a generare come germogli che attecchiscono sparsi in luoghi diversi e lontani della sua vita e della sua interiorità. Inizia a fare cose nuove (viaggi, volontariato…) quasi impensabili prima; si sperimenta, è più libero, può manifestare agli altri le sue emozioni senza la durezza del vecchio giudizio interno.

Più l’insieme delle emozioni sperimentabili si allarga, più può sentirle e sentirsi pieno. Può arrabbiarsi con gli altri, smette di essere dipendente dall’altrui giudizio. Piano piano migliorano le relazioni al lavoro, in famiglia, con gli amici.

È più libero e sicuro nel sentire ed esprimere ciò che prova, sentimenti ed emozioni possono essere ora provate e raccontate. Più volte mi dice che alcune cose sembrano nuove, “non sono abituato a sentire queste cose”.

Sente una maggiore vicinanza con gli altri e questi ultimi sembrano cambiati nel rapporto con lui. Inizia a commuoversi in alcune situazioni e a gioire sinceramente.

La tristezza però sempre lo collega immediatamente alla depressione, hanno un filo diretto, una linea rossa che subito allerta tutto quanto. Muore un cugino, grande amico. Tutto si inceppa.

È chiaro a me ed in parte anche al paziente che siamo in una diversa fase, che ora la tristezza, il dolore, la disperazione, per quanto difficili e indesiderabili, sono diversi da quelli provati allora, sono di un’altra fattura.

Hanno, nella fatica, una vitalità espressiva che prima non esisteva. Soffre. Il pensiero va immediatamente ad allora e un timore di fondo ritorna, provarli può mettermi a rischio, potrei tornare ad allora, potrei perdermi nuovamente.

Sentirli e lasciare che facciano il suo corso lo terrorizza. Tutto si ferma e si intasa: ansia, controllo, rabbia, isolamento, inquietudine ed insonnia sono il risultato. Il tentativo di scacciare il dolore provoca più danni del dolore stesso.

Il sacrosanto pianto per la morte di un amico viene a sovrapporsi con il gelido silenzio della depressione, senza riuscire a coglierne la radicale differenza.

 

Luisa

Viene da me per una serie di attacchi di panico uniti a meccanismi di controllo. Facciamo un lungo lavoro terapeutico. I sintomi vengono compresi, assimilati, lentamente scompaiono, la sua vita relazionale migliora così come il rapporto con se stessa.

Ad un certo punto compare un uomo nella sua vita. Da molto tempo L. non si sentiva attratta da una possibile relazione. Ora pare diverso, come se in lei vi fosse un desiderio dell’altro maggiormente consapevole e maturo.

Compare un’emozione, un sentimento amoroso. Compare perché probabilmente ora è possibile per la mente di L. venirvi a contatto, in un modo nuovo, in un territorio che prima era inquinato dalla sua rigidità nevrotica.

La seduzione però, il sentirsi tirati in disparte dall’incontro con l’altro costringe giocoforza a perdersi, fattore che è anche la radice del suo vecchio terrore panico.

La situazione è diversa, è un perdersi funzionale al riassetto psichico ed alla possibilità di amare, ma percorre una strada molto simile a quella che spaventa a morte Luisa.

Amare, incontrare davvero l’altro (cosa forse possibile quest’oggi) richiama lo ieri della perdita del controllo che ha devastato la vita di Luisa. Inizia una nuova fase della terapia di L.

In questi due casi vorrei parlarvi di una fase avanzata della terapia, i sintomi spesso sono scomparsi, la situazione generale di vita è migliorata, la terapia potrebbe considerarsi quasi terminata, almeno da un punto di vista strettamente funzionale.

In alcuni casi però possono permanere emozioni, sentimenti e stati d’animo difficili da frequentare per il paziente. Tendono a confonderlo e a riattivare vecchi meccanismi e terrori.

Sono spesso vissuti centrali nelle richieste d’aiuto del paziente, sono le emozioni che più sono state associate con la sofferenza e l’hanno come marchiata. Tristezza nel primo caso, perdita di controllo ed intimità nel secondo.

Antonio ha recuperato, o forse imparato per la prima volta a vivere una gamma maggiore di emozioni umane, senza più dover ricorrere a meccanismi scissionali e razionalizzazioni; “Dottore, non sono abituato a sentire queste cose” – afferma ultimamente.

La sua nuova intensa tristezza, dovuta questa volta al lutto, immediatamente lo catapulta nelle sensazioni di allora, nel ricordo vivo della depressione. C’è però una profonda differenza tra ora ed allora.

Mentre la tristezza depressiva è muta, nera, sterile e tende a non generare alcuna forma di pensiero, non ha alcuna direzione né anima, questa nuova tristezza, benché decisamente dolorosa, qualora accettata e frequentata permette alla sua mente di elaborare e di digerire il fatto luttuoso.

L’avvicinarlo pericolosamente al ricordo della depressione fa sì che vecchie dinamiche ricompaiano. C’è il tentativo di fuggire il dolore guidato dalla paura che lasciandosi andare al decorso del lutto si possa ricadere nel buco.

È vero, la connessione tra le due sembra naturale ed in alcuni casi la perdita può riattivare dinamiche depressive. Lo scarto tra i due universi è minimo e se presi in modo puntuale possono davvero sembrare la stessa cosa, come un incubo che si ripresenta.

La radice però è evidentemente un’altra.

Ci sono alcune differenze fra queste due sofferenze, sottili ma sostanziali. Qui entriamo in un paradosso difficile da comprendere per il paziente. L’ingresso nella tristezza ed il suo attraversamento rispettano la fisiologia psichica del lutto, ne permettono un normale e sano svolgimento, mentre la fuga dalla temuta tristezza porta ad inquietudine, insonnia, confusione, insoddisfazione, rabbia, spegnimento che ancor più assomigliano profondamente allo smarrimento dell’inizio di una nuova crisi depressiva.

La fuga dalla tristezza pensata come depressione provoca uno stato d’angoscia inquieta ancor più simile alla depressione della tristezza stessa.

Allo stesso modo in Luisa l’avvicinarsi finalmente all’intimità con l’altro dovrebbe portare con sé i naturali e sani smarrimenti tipici della seduzione, mentre i meccanismi di evitamento pauroso la portano invece alla confusione (“ciò che sento è giusto?” domanda) e al riattivarsi del controllo tipici del panico.

Purtroppo non esiste un reale incontro sentimentale senza smarrimento.

Scrive Carotenuto: “sedurre, infatti, deriva dal latino sed composto con ducere, dove il morfema sed sta per “a parte”. Seducere significa dunque condurre in disparte. L’individuo sedotto è catturato, sottratto ad un preciso ordine di significati, condotto “altrove”, afferrato da una forza a cui non può opporre resistenza”.

Ancora: “non c’è dubbio che la vocazione di Eros sia quella di alterare, di sviare, di ferire, ma tali alterazioni e seduzioni sono funzionali, almeno potenzialmente, alla riorganizzazione di un nuovo assetto psicologico”.

Dove sta la bussola allora? Qual è la differenza tra la vecchia tristezza depressiva e quella legata alla perdita? Qual’è la differenza tra la vecchia paura panica di perdere il controllo ed il nuovo incomprensibile desiderio di perderlo per entrare nei territori di una seduzione vera?

La risposta, per il terapeuta, potrebbe essere nella bontà generativa ed evolutiva di tali emozioni. Le prime, se sentite ed osservate mostrano la loro chiusura e rigidità, tendono ad essere mortifere, le seconde aprono al pensiero e a sani e germinativi vissuti umani.

A poco può bastare la spiegazione lineare e razionale di questa situazione da parte del terapeuta. È utile, ma non sufficiente. Decisamente più efficace è il riconoscimento della situazione interna del paziente e l’emotiva ed implicita comunicazione della normalità di tutto ciò.

Prima era timore di una sofferenza morta, ora è umana paura di attraversare territori dolorosi o confusivi, ma generativi.

La bussola risiede allora nella consapevole fiducia del terapeuta verso le nuove possibilità del paziente. Come se quest’ultimo stesse muovendo i primi passi in una regione che prima era strettamente legata alla sofferenza patologica, in un senso unico ed angosciante; mentre ora ci si muove nell’inevitabile varietà delle emozioni umane sane.

Il terapeuta ha quindi il compito di oscillare tra la comprensione della difficoltà del paziente e l’attesa di un qualcosa di possibile e prolifico. Se questa è stata già abbondantemente effettuata non è più forse il momento di una attenta e serrata analisi della situazione emotiva, delle connessioni col passato, dei contenuti inconsci.

Certo non va abbandonata, ma è soprattutto la fiducia del terapeuta nella bontà evolutiva di ciò che il paziente sta attraversando, nella naturalità della cosa, che può aiutare il paziente ad accedere ad un nuovo stato di libertà.

In questo modo succede che i confini di ciò che può sentire e vivere vadano ad allargarsi, conscio dei vecchi impedimenti nevrotici che a volte inevitabilmente si riattivano.

 

Bibliografia

Carotenuto A., Riti e miti della seduzione, Bompiani, Milano, 2006

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Gabriele Ramonda
Sono psicologo clinico specializzando in Psicoterapia Psicoanalitica. Collaboro con il Centro di Psicoterapia presso l'ASL Torino1, ricevo in studio a Chieri e a Torino. Collaboro con i servizi sociali torinesi nel settore disabilità. Ho lavorato per alcuni anni come psicologo in comunità terapeutica “Il Porto Onlus“, dove ho seguito in tempi diversi disturbi di personalità, dipendenze e psicosi. Mi sono poi dedicato alla riabilitazione psichiatrica in gruppi appartamento. Oggi mi occupo anche di marketing, fotografia e comunicazione: ho co-ideato e co-fondato Nora Photobooth, prima impresa italiana a occuparsi di Photobooth nel campo degli eventi e della comunicazione. Lettore appassionato, disorganizzato ed un po' anarchico. Scrivo articoli, riflessioni e poesie confuse. "Considero la psicologia e la psicoterapia non solo come dei solidi e provati strumenti di cura, ma anche come metodo di ricerca di senso, di possibilità di riflessione e conoscenza di sé che va al di là del semplice adattamento alla realtà." Contatti: info@psicologiaramonda.it

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