Che cosa c’è alla base della nostra personalità? Cosa ci accomuna e che cosa ci distingue dai nostri progenitori e dagli animali evolutivamente inferiori? Quali sono le dominanti ultime del nostro comportamento?

Per Jaak Panksepp al risposta è molto semplice: le emozioni. A queste domande fornisce una risposta esauriente il libro I fondamenti emotivi della personalità. Un approccio neurobiologico ed evoluzionistico, edito in Italia da Raffaello Cortina Editore.

Il volume, edito postumo la morte del grande neuroscienziato, neurobiologo e psicologo statunitense, racchiude un ricco compendio di dati di ricerca volti a suffragare la visione delle neuroscienze affettive sul tema della personalità e del comportamento umano.

Le neuroscienze affettive rappresentano la visione teoria emergente dagli studi di Panksepp e del suo gruppo di ricerca sul tema del comportamento dell’animale e dell’uomo, studi caratterizzati, come suggerisce il sottotitolo stesso del manuale, da una prospettiva evoluzionistica e da un metodo di indagine neuroscientifico.

Le teorie evoluzionistiche influenzano le neuroscienze affettive nella misura in cui indirizzano nello studio comparato del comportamento dell’uomo e degli animali una strada maestra per comprendere le radici profonde del nostro funzionamento psicologico.

Si assume, quindi, che l’uomo, con la sua complessità psicologica, non rappresenti che l’ultimo tassello di una tensione evolutiva che si è dispiegata, nell’evoluzione, nel raggiungimento di una sempre maggiore sofisticazione a livello di strutture organiche e funzioni mentali.

Il metodo neuroscientifico, avvalendosi delle più recenti tecniche di neuroimaging (ovvero di visualizzazione del cervello in vivo tramite appositi macchinari), ha permesso di porre un accento particolare sui corrispettivi neurali della personalità, in una visione che contempla sia gli aspetti strutturali e organici che quelli funzionali e psichici: utilizzando un’espressione di Panksepp, il focus è sul cervello-mente.

Sulla scorta di questi assunti di base, Panksepp e il suo gruppo di ricerca hanno ricuperato una grande mole di dati provenienti da altri Autori e hanno condotto loro stessi una vera montagna di studi sul comportamento dell’animale e dell’uomo, al fine di corroborare un’ipotesi decisamente affascinante: nell’uomo come nell’animale, i motori profondi del comportamento e le dominanti della personalità non sono altro che le emozioni di base.

Il manuale racchiude gran parte di questi studi e il lettore scoprirà, anche con una certa sorpresa, della quantità di studi condotti sulle emozioni e sui tratti di personalità in specie animali anche molto inferiori all’uomo sulla scala evolutiva: gli Autori suggeriscono una buona compatibilità di tratti di personalità fra l’uomo e la scimmia, la presenza di molti dei tratti riconoscibili nell’uomo anche nei cani e nei ratti, fino a cogliere alcune omologie dall’osservazione del comportamento degli uccelli, dei pesci e di alcuni semplici invertebrati!

La ricorrenza di questi pattern di sentire e di agire ha suggerito a Panksepp che, fondamentalmente, le emozioni non siano altro che dei sistemi motivazionali, evolutivamente selezionati dall’ambiente, che guidano il comportamento delle specie in quei compiti decisivi per la sopravvivenza.

In questo senso, essendo le emozioni di base così pervasivamente presenti lungo le catene evolutive, è possibile ipotizzare che proprio queste siano i pilastri della formazione della nostra personalità, strutturando il nostro modo di muoverci nel mondo e predisponendo certi apprendimenti che sono alla base dei nostri pattern specifici di sentire e agire: in altre parole, dei nostri tratti di personalità.

Nell’ambito di un interessante excursus teorico fra le varie teorie sulla personalità proposte dalla psicologia classica, Panksepp e colleghi tracciano degli interessanti trait d’union con la loro visione sull’uomo. Allo stesso tempo, molto spazio e dedicato al confronto fra il modello di personalità basato sugli affetti e il mastodontico modello a cinque fattori, noto come Big Five, che rappresenta, ad oggi, uno dei sistemi più validati di comprensione e misurazione dei tratti di personalità.

In seguito a diversi studi comparativi sull’animale e sull’uomo, le neuroscienze affettive arrivano a ipotizzare una sostanziale sovrapposizione fra le dimensioni di personalità individuate dal Big Five e gli affetti di base che, secondo Panksepp, sarebbero fondamentali allo sviluppo della personalità.

In sostanza, secondo l’Autore, se le teorie di personalità tradizionali vanno a indagare elementi sofisticati e cognitivi della personalità individuale, come le concezioni che la persona ha di sé e del proprio agire, le neuroscienze affettive si concentrerebbero sulle dimensioni di base, inconsce e automatiche, che strutturano la personalità ad un livello primario: le emozioni.

Secondo il modello di Panksepp, vi sarebbero sette affetti di base, strutturati all’interno di altrettanti sistemi motivazionali evoluzionisticamente selezionati per affrontare con successo alcuni problemi ambientali:

  • il sistema della rabbia, che ci aiuterebbe nelle situazioni in cui è presente un rischio di perdere delle risorse;
  • il sistema del panico, che ci avviserebbe della possibile perdita di relazioni sociali;
  • il sistema della paura, che ci avvertirebbe dei vari pericoli per la nostra incolumità;
  • il sistema della ricerca, che attiverebbe il nostro comportamento in quelle situazioni in cui possiamo cogliere opportunità che favoriscono la nostra sopravvivenza e il nostro benessere;
  • il sistema della cura, che ci spingerebbe a prestare aiuto e concedere tenerezze alle persone per noi significative;
  • il sistema del gioco, che ci stimolerebbe a interagire fisicamente e socialmente con i pari per puro divertimento;
  • il sistema del desiderio sessuale, che ci porterebbe a ricercare la vicinanza e l’intimità con potenziali partner di accoppiamento.

Tali sistemi emotivi-motivazionali accomunerebbero l’uomo con molte specie animali, specie quelle più prossime dal punto di vista evolutivo, in quanto risponderebbero alla necessità di avere una bussola interna che direzioni in nostro comportamento in determinate situazioni.

Ad un livello primario, tali emozioni si attiverebbero alla presentazione di queste stimolazioni ambientali, andando a rinforzare o a punire i nostri comportamenti e innescando delle opportunità di apprendimento, che ad un primo livello avverrebbero in maniera largamente inconscia.

Tale meccanismo primario di funzionamento, nello schema del cervello-mente, rimanderebbe all’attivazione dei circuiti sottocorticali del cervello rettile e mammaliano, strutture profonde del cervello e evolutivamente simili al cervello dei nostri progenitori a sangue freddo e a sangue caldo.

Questo livello di funzionamento, come si può evincere da quest’ultima considerazione, è ancora piuttosto arcaico e legato alla necessità dell’organismo di mettere in atto risposte immediate ed efficaci. Tuttavia, proprio in virtù dell’importante funzione adattiva cui questi sistemi assolvono da milioni di anni, la loro influenza è decisiva sul nostro agire e sentire, tanto da poterli considerare i fondamenti del funzionamento umano.

Notiamo inoltre come, dato questo set di emozioni di base, le differenze individuali a livello di personalità sarebbero spiegate dal diverso livello di attività di questi circuiti, definito su base temperamentale e innata, nonché dalle esperienze individuale di interazione con l’ambiente.

Infatti, salendo di livello, secondo Panksepp i processi primari permetterebbero, nell’uomo come nell’animale, la formazione di apprendimenti, ad un livello secondario.

Tali apprendimenti, che possono anche essere in parte consapevoli, rimandano alle esperienze ambientali in cui l’attivazione dei sistemi motivazionali si è rilevata più o meno utile al fine di adottare delle strategie efficaci per riuscire nei propri intenti.

Questo set di apprendimenti, che si dispiegherebbero in larga parte seguendo i processi di condizionamento ipotizzati dal comportamentismo, rappresentano il bagaglio individuale di esperienze che differenzia un animale dall’altro e un uomo dall’altro.

Nell’architettura del cervello-mente proposta dagli Autori, esiste però un terzo livello assente negli animali e che renderebbe l’uomo un unicum all’interno della catena evolutiva.

Parliamo di quei processi terziari di funzionamento mentale che rimandano alla presenza nell’uomo di lobi frontali particolarmente sviluppati, che gli hanno permesso, nel corso dell’evoluzione, di sviluppare un pensiero autocosciente.

Mentre di fatto i processi secondari di apprendimento rappresentano un dato di fatto per l’animale, su cui non può interrogarsi retrospettivamente, l’uomo possiede una capacità riflessiva e autonoetica che gli permette di ripensare alla propria esistenza, fino a definire un’esperienza di Sé che non passa solo per la presenza fisica nel mondo ma anche per l’esperienza di essere agente e artefice della propria esistenza.

Nonostante questo livello sia distintivo della nostra specie e ci renda in grado di pensare e sentire la nostra esperienza in un modo ricco e complesso, secondo Panksepp i sistemi evolutivamente più antichi rimangono quelli che esercitano l’influenza maggiore sul nostro comportamento.

Il modello, pur proponendo l’esistenza di connessioni bidirezionali fra i processi primari, secondari e terziari, in sostanza raccomanda, da un punto di vista clinico, di prestare sempre un’attenzione particolare sui processi di natura emotiva, che ci caratterizzano l’uno dall’altro e che esercitano un potente influsso sulla nostra condotta.

La stessa psicopatologia è riletta da questo modello come un’oscillazione atipica delle dimensioni affettive di base verso un funzionamento eccessivamente o scarsamente attivato: è allora compito del clinico operare con le tecniche a disposizione per agire su questi livelli del funzionamento.

Le tecniche terapeutiche suggerite da questo modello della personalità rimandano ovviamente a terapie farmacologiche, stimolazione elettrico profonda del cervello, pratiche non invasive come l’EMDR: insomma tutte le tecniche più vicine alla psichiatria contemporanea.

D’altro canto, nonostante la tensione verso terapie più “hard”, gli Autori suggeriscono l’importanza di una clinica che ritorni a considerare come siano le stimolazioni affettive di base a fare la differenza sulla nostra esperienza di noi stessi e del mondo.

Nella clinica, ciò risponde all’importanza di comprendere quali sistemi emotivi di base risultino “malfunzionanti”, al fine di lavorare, nel setting terapeutico, su quelle esperienze emotive troppo attivanti o su quelle stimolazioni che possano riattivare dei sistemi emotivi silenziati.

Per fare un esempio, consideriamo un possibile paziente fobico: le sue paure potrebbero concentrarsi su elementi specifici dell’ambiente come su elementi più diffusi dell’esperienza. Tramite il colloquio o la somministrazione di strumenti specifici (Panksepp e colleghi suggeriscono proprio le ANPS, scale autoriportate che vanno a sondare il livello delle emozioni di base del paziente), il clinico potrebbe ipotizzare un marcato livello di attività del sistema della paura e una bassa attivazione del sistema della ricerca.

Compito del clinico sarà allora, in sede di terapia o come homework, suggerire al paziente tutta una serie di stimolazioni che lo possano aiutare a ridimensionare l’attivazione della paura e ripristinare i comportamenti di ricerca.

Nel complesso queste stimolazioni andrebbero, potenzialmente, a modificare la fiducia di base del paziente ad un livello secondario, nonché le concezioni patogene che ha su di sé e sulla propria vulnerabilità, ad un livello terziario.

Nonostante quindi l’orientamento decisamente psichiatrico di una tale prospettiva, alcuni spunti possono essere di interesse clinico, indipendentemente dall’orientamento terapeutico del singolo professionista. Motivo per cui la lettura di questo volume è caldamente consigliata.

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