Cosa rappresentano i feti? Come mai l’immaginario che ci ruota intorno dovrebbe interessare ognuno di noi, anche i non addetti ai lavori, anche chi non ha né vuole figli? Cosa si smuove, di tanto profondo, parlandone?

“Un giorno mi trovavo vicino a Tokyo in un cimitero tra i più grandi del Giappone […]. Alla fine del viale avevo notato un tempietto con un altare e tanti Mizuko. […]Una donna di mezza età che indossava un kimono […] mi aveva fatto entrare. Aveva poi recitato una lunga preghiera […]. Avevo capito che mi aveva preso per una signora europea che aveva abortito nel passato e che ora desiderava una cerimonia per ricordare il bambino perduto e per alleviare il dolore della perdita. […] Tutto questo è ben diverso dall’atmosfera di colpa, peccato, segretezza e persino criminalità che circonda gli aborti anche molto precoci in tante religioni.”

Mi sono interrogata a lungo su come iniziare la mia recensione di questo libro: Il culto del feto. Si tratta del lavoro della psichiatra, neurologa e psicoanalista Alessandra Piontelli, edito da Cortina editore con il quale l’autrice si propone di “trattare di feti e di come la società tratti sia i feti sia la gravidanza”.

Alla fine ho pensato che, per rendere la peculiarità dello stile dell’autrice, fosse necessario partire dalle sue parole. Lo stile di esposizione è nettamente scientifico a tratti, ma evolve, di tanto in tanto, verso riflessioni di altro carattere. Chi scrive scuote numerosi strati emotivi, valori e certezze in chi legge, pur non scadendo mai nel giudizio.

Il testo si suddivide in tre sezioni esaminando l’argomento secondo diverse angolazioni. La prima ci offre uno squarcio su come i numerosi cambiamenti tecnologici e scientifici, ma anche sociali, abbiano modificato l’atteggiamento nei confronti dei feti e della gravidanza in generale.

La seconda, più tecnica, rende note le diversità del comportamento fetale nelle epoche di gravidanza. La terza prende in esame le culture e i vari usi e costumi intorno alla gestazione.

Il tema centrale sono appunto i feti, ma l’autrice attraversa argomenti importanti partendo da questo nucleo di trattazione. Cercherò quindi di dare nota di alcune tra le riflessioni più interessanti che sono sorte in me durante la lettura.

Quando si forma il legame madre-figlio? 

Nel corso della mia formazione ho avuto l’occasione di affiancare gli psicologi del Consultorio in un progetto di sostegno alla genitorialità.

“Futuri genitori”: è così che mi rivolgevo alle coppie in attesa del loro bambino. La frase veniva pronunciata senza remore, fin quando fu oggetto di discussione. “Ma durante la gravidanza si può parlare già di genitori?” fu la semplice domanda del medico del servizio.

Ovvio che per me la risposta era sì, si parla di “genitori” perché numerosi autori hanno analizzato i processi psichici che si susseguono nella donna dall’inizio della gravidanza e hanno reso nota di come la gestante si trovi ad affrontare una vera e propria evoluzione. E questo vale anche per il papà. In conclusione i due si stanno preparando a diventare genitori.

La psicoanalista Bibring (1959, 1961) individua, ad esempio, alcuni importanti compiti che si dispiegano durante la gravidanza. La madre procede prima verso l’accettazione dell’embrione e del feto, per poi riconoscere, attraverso la percezione dei movimenti fetali, la presenza dell’altro, suo figlio. E’ così che si preparerà all’evento della nascita-separazione.

Leggendo questo libro, però, la fatidica domanda è riemersa, aprendo una nuova finestra di riflessione.

Oggi è come se fosse abbastanza diffusa la tendenza ad equiparare un feto ad un bambino. Molte delle donne che ho incontrato, ad esempio, attribuivano ai movimenti fetali significati precisi, stati di veglia o preferenze del loro piccolo, tratti caratteriali.

Si tratta di un’interpretazione non del tutto corretta, in quanto non ci sono evidenze che un feto sia consapevole delle percezioni. Ma questa informazione non è fondamentale per una coppia che aspetta con ansia il suo bambino. Anzi, forse questo pensiero può contribuire allo sviluppo di un buon attaccamento prenatale, ovvero del legame che i genitori sviluppano verso il feto durante la gravidanza.

Prima dell’avvento degli ultrasuoni, però, tutto questo processo si giocava molto nell’immaginario della donna, mentre oggi viene costantemente incentivato da dati concreti come le immagini del feto che diventano la prima fotografia del “bambino”.

Se, quindi, gli psicologi lavorano sui processi che conducono i due partner a conoscere sé stessi come genitori (ecco qua il famoso “cari genitori”) gli ultrasuoni danno per scontato che questi meccanismi siano gli stessi per tutti ed offrono una pericolosa concretezza. Intorno alla gravidanza ruota poi un mondo che avviluppa le coppie e le donne.

La mistica della madre e della famiglia felice

Sulla femminilità gravitano da sempre strane idee, che spesso si trasformano purtroppo in vere e proprie imposizioni, in giudizi. Alla mia età ci si sente spesso dire “ma un figlio quando lo fai?” oppure “tra poco sarai a rischio di non avere figli” dando per scontato che una donna, in quanto tale, debba per forza avere la vocazione della maternità.

La mistica della madre, ovvero l’idea che la donna sia detentrice di migliori capacità genitoriali si è diffusa, secondo l’autrice, agli inizi del secolo scorso. Prima le donne avvertivano comunque le pressioni della famiglia a fare figli, ma non si sentivano obbligate a desiderarli, ad attribuire loro “il senso della loro vita”.

“Troppo spesso tutti noi ci aggrappiamo al modello della ‘famiglia felice’: questo significherebbe sposarsi giovani, fare figli in fretta, considerare la madre come la principale, se non l’unica, badante e nutrice” ci dice la Piontelli.

Inizia così a delineare il perché attribuire al feto lo status di bambino può diventare pericoloso. Non si tratta del percorso psicologico che, in un contesto di accompagnamento alla gravidanza, sostiene i futuri genitori, ma di un processo che inizia a proiettare la donna e la coppia dentro a questa “famiglia perfetta” già a partire dalla gestazione.

Il conflitto materno-fetale

Arrivo così a quello che io ho ritenuto il nucleo centrale delle riflessioni che questo testo scaturisce. Se la scienza può dirci con certezza che il feto è diverso dal bambino perché si tende sempre più ad attribuirgliene lo status?

“I feti rappresentano la promessa d un futuro senza limiti, non ancora intralciato da tutte le limitazioni, le fatiche e le scelte della vita. In teoria e in fantasia fino alla nascita i feti possono essere immaginati belli, intelligenti, ricchi, di successo, o qualsiasi cosa uno desideri ma non abbia. […] Un feto vive in uno stato protetto illusorio dove in fantasia tutto gli viene fornito e nulla e nessuno lo può toccare, a meno che la donna non ‘si comporti e agisca male’.”

L’autrice ci avverte come la nostra “società del benessere” stia rischiando ancora di trasformare il corpo della donna in un accessorio per sostenere delle fantasie.

In questa ottica l’aborto assume una connotazione grottesca in quanto immaginare una madre che decide deliberatamente di far male al proprio “figlio” suscita paure troppo profonde e per questo viene additato. Capita spesso, infatti, che le donne che subiscono un aborto, o lo decidono, vivano sensi di colpa inimmaginabili. La società non le scusa, non le “perdona” di aver interrotto il proprio sogno.

Lo spaccato su altre culture ci offre l’occasione di capire che non si tratta però dell’assoluta verità. E’ lo società che ci fa vedere le cose in un certo modo.

La citazione che ho proposto all’inizio, ad esempio, raffigura la cultura giapponese come molto diversa dalla nostra. I feti non sono visti come bambini, l’aborto è praticato quasi come tecnica contraccettiva e non sono nascosti o negati.

Ho scelto la citazione iniziale perché propone un modello estremamente diverso dal nostro, evocando tolleranza, compassione, comprensione.

In un’ultima analisi questa è la cosa più evidente in tutta la trattazione di questa autrice: l’invito alla tolleranza. Si vuole offrire una lettura diversa, su come la nostra società tratti i feti in un modo che influisce sulle vite di ognuno di noi. Ma soprattutto risulta evidente l’intento di offrire stimoli per allargare le prospettive, provando a sospendere il giudizio.

Lo consiglierei molto a chi si occupa della nascita, a tutti gli operatori che lavorano intorno alla gravidanza e alla genitorialità, ma anche a chi si accinge a diventare genitore. Lo proporrei a tutti coloro che hanno voglia di interrogarsi sulla società, sul femminismo, sulla maternità, anche a chi non la desidera.

 

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