Scritto in collaborazione con Elisa Ginanneschi.

Un numero crescente di persone oggi utilizza Internet per attività sessuali online, e questo fenomeno sta rapidamente crescendo.

Questa nuova “rivoluzione sessuale” ha prodotto sia aspetti positivi che negativi: facilitando ed arricchendo il comportamento sessuale da un lato, ma dall’altro favorendo anche la nascita di nuove opportunità per condotte sessuali negative, quali il revenge porn.

Questo termine, tuttavia, viene attualmente considerato inappropriato dalla comunità scientifica del settore, che preferisce adottare la più accurata locuzione di “pornografia non consensuale”.

Qualche mese fa si è parlato a lungo, prima che la vicenda finisse di nuovo nel dimenticatoio, del fenomeno di un particolare tipo di chat su Telegram, quelle chat dove gruppi di uomini si scambiano foto di fidanzate, ex fidanzate, amiche, figlie o sconosciute; maggiorenni o minorenni.

Foto intime ottenute in maniera non consensuale, oppure fatte con il consenso e distribuite senza; o anche normali fotografie in cui forse si vede solo il viso e si trova qualche elemento da feticizzare, come gli occhiali o le trecce.

Poi dalle foto si passa a nomi, cognomi, numeri di telefono, indirizzi, luogo di lavoro, posti frequentati. Il confine della chat esplode e ci sono conseguenze sulla vita quotidiana di queste donne. Licenziamenti, stalking, rischio di essere stuprate da qualcuno che non si accontenta delle loro fotografie e avendo tutte queste informazioni su di loro può trovarle e farlo.

La distribuzione non consensuale di immagini intime è nota con il nome di revenge porn.

Questo nome richiama una delle possibili dinamiche coinvolte in questo processo, ossia quando i video e le fotografie vengono distribuiti in seguito ad un rifiuto o una separazione, per vendetta, appunto.

McGlynn e Rackley (2017) preferiscono invece parlare di “violenza sessuale basata sulle immagini”, da una parte poiché ritengono che esista un continuum di violenze sessuali e che il revenge porn debba essere considerato parte di questo continuum e dall’altra poiché ritengono che quella della vendetta da parte di partner o ex partner sia solo una delle possibili situazioni che si possono verificare.

Non si parla, infatti, solo di video girati consensualmente e distribuiti senza consenso, ma anche della creazione non consensuale di questi contenuti. Tra questi vi sono l’upskirting (fotografie fatte sotto la gonna) o forme di voyeurismo, fino anche ad arrivare al girare video di stupri e poi distribuirli (aspetto che rende esplicito il continuum di violenze sessuali).

Quest’ultimo punto è probabilmente uno dei più disturbanti; eppure succede e non è un fenomeno ascrivibile ai confini delle chat di gruppo: anche sui più popolari siti pornografici è possibile trovare video di veri stupri.

Ci sono diversi casi di cronaca che supportano questa affermazione.

Per citarne alcuni, è noto il caso di una ragazza adolescente che è stata rapita e violentata per 12 ore. Il video del suo stupro è finito su internet, anche su un popolare sito porno, ed è stato visto dai suoi compagni di classe che hanno iniziato a fare del bullismo nei suoi confronti. La ragazza ha contattato diverse volte la piattaforma pregando di rimuovere quel video, in cui tra l’altro era minorenne, ma non ha ottenuto nulla, fino a che non si è finta un avvocato ed ha minacciato azioni legali, a quel punto i video del suo stupro sono stati rimossi.

Un altro esempio è quello di una quindicenne che è stata rapita e di cui non si sono avute notizie per un anno, fino a che non è apparsa in un video porno e poi in un altro, fino a quando non sono stati scoperti 58 video in cui l’adolescente veniva abusata e costretta a girare queste scene.

Se in questo terribile caso possiamo avere il beneficio del dubbio che forse qualcuno degli utenti non si fosse accorto che si trattasse di veri stupri ai danni di una minorenne, ci sono altri casi in cui è palese che esistano utenti che cercano sui principali siti porno stupri di cui hanno notizia tramite casi di cronaca.

Ha fatto scalpore, in questo senso, il caso di una donna indiana che è stata stuprata e uccisa brutalmente: il giorno dopo il suo nome era un trend sui principali siti porno.

Lasciamo perdere, per un attimo, quello che questo fatto potrebbe dirci sugli utenti che lo hanno cercato. Il fatto stesso che lo abbiano cercato a me dice una cosa molto precisa, ossia che sapevano che avrebbero potuto trovarlo. Su siti che incassano milioni, non su una chat. Questo dovrebbe darci un’idea di quanto il fenomeno sia diffuso e sottovalutato.

Analogamente, i video di “revenge porn” girati in maniera consensuale e distribuiti in modo non consensuale di cui si hanno notizie tramite casi di cronaca, finiscono spesso in cima ai trend di queste piattaforme.

Ne è un esempio ciò che è successo recentemente ad una giovane insegnante italiana di Torino: il suo ex fidanzato ha mostrato le immagini intime della donna agli amici e la notizia è arrivata fino alla datrice di lavoro di lei che l’ha licenziata.

Momenti di intimità che, una volta terminata la relazione, vengono diffusi dall’uomo all’interno di una chat di gruppo su Whatsapp. Da questo momento in poi, ha inizio la catastrofe.

Uno dei membri della chat mostra il video alla moglie, la quale riconosce la maestra di suo figlio e, invece di rimproverare il marito e mostrarsi solidale con la donna, decide di condividerlo in una chat con altre mamme. La mamma “spia” avrebbe poi chiesto d’incontrare la maestra minacciandola di mandare tutto alla dirigente scolastica se avesse denunciato il marito per la diffusione illegale del video. Queste le parole riportate negli atti del processo:

Non dire nulla a nessuno o rivelo tutto alla dirigente dell’asilo”.

La donna ha sì ricevuto solidarietà da una parte di internet, ma il video che costituisce l’oggetto del reato ai suoi danni è stato anche cercato compulsivamente sulle principali piattaforme pornografiche, dove gli utenti sapevano che avrebbero potuto trovarlo, con un po’ di “fortuna”.

Se da una parte sembra che le persone abbiano compreso che la donna abbia subito delle conseguenze profondamente ingiuste (il licenziamento), sembra, invece, non esserci coscienza del fatto che la distribuzione di quel video costituisca essa stessa un reato; così come costituisce un reato girare questo genere di video in maniera non consensuale.

Il fenomeno continua ad essere sottovalutato, ci si rende conto della gravità della cosa solo quando ci sono conseguenze estreme nelle vere vite di queste donne, conseguenze che noi possiamo vedere.

Essere date in pasto agli occhi di sconosciuti, però, è già qualcosa di estremo; è già una violenza ed è anche questo che viene sottovalutato.

Si è coscienti (forse) che gli stupri siano qualcosa di immensamente grave, si è coscienti che i licenziamenti siano qualcosa di grave, così come l’isolamento sociale, ma l’atto in sé, l’atto in sé viene profondamente sottovalutato per il peso che può avere per le vittime. Invece è esso stesso un reato, una violenza che non dovrebbe passare in secondo piano.

Molti, esprimendosi su vicende simili, in difesa delle vittime, pongono l’accento sul fatto che le donne abbiano il diritto di girare questi video. Ed è vero. Girare questo genere di video non costituisce un reato, ma questo non dà ad altri il diritto di consumarli, di trarre in prima persona un vantaggio da questa declamata libertà.

Come negli altri casi di cyberbullismo, infatti, ci sono più soggetti coinvolti: abbiamo una vittima, un carnefice e poi ci sono i bystander, i testimoni, ossia coloro che vedono e che possono supportare la vittima, non fare nulla o esserle d’aiuto.

Nel caso della donna torinese, altre persone direttamente coinvolte nella vicenda hanno scelto di non supportare la vittima (che ha infatti subito un licenziamento), ma anche chi cerca questi video per consumarli fa qualcosa che non è di appoggio alle vittime e non è nemmeno neutro: sta contribuendo alla loro ri-vittimizzazione.

Gli effetti sulle vittime, come intuibile, sono devastanti: la maggior parte riporta grave disagio emotivo ed ansia, nonché il rischio di essere sottoposti a varie forme di abuso sessuale proprio per la rintracciabilità delle vittime le cui immagini sono diffuse in rete, trasformandole in questo modo in intrattenimento sessuale per gli estranei che ne prendono visione.

Se l’immagine è pubblicata online e collegata al nome della vittima, può essere facilmente localizzata attraverso i motori di ricerca. Spesso inoltre le minacce di rivelare le immagini sono usate proprio per impedire alle vittime di andarsene o di denunciare un abuso.

Continuare a distribuire, cercare e consumare questo materiale non crea un ambiente favorevole per le vittime, un ambiente che sia supportivo e in grado di aiutarle a riprendere in mano e mantenere le redini della propria vita, tornando ad uno stato di serenità.

Inoltre, fra gli effetti più gravi e diffusi troviamo non soltanto minacce di violenza sessuale alle vittime, che vengono spesso perseguitate e molestate, ma anche licenziamenti dal lavoro o costrizione a cambiare scuola, limitazioni sulla possibilità di avere nuove opportunità di lavoro, fino ad arrivare al vero e proprio suicidio.

Sia il giudizio e l’isolamento sociale, sia la ricerca di questi contenuti creano un clima ostile e dannoso e riflettono una forte ambivalenza sociale verso le donne, i loro corpi e la loro sessualità.

I messaggi che le donne, nel corso del proprio sviluppo sessuale e personale, ricevono a riguardo hanno qualcosa di schizofrenico: da una parte la sessualità femminile viene condannata, dall’altro negli ultimi anni soprattutto tra i giovani, si sta facendo largo una cultura pop che manda alle ragazze messaggi contraddittori rispetto a quelli imposti dai tradizionali ruoli di genere.

Queste si trovano pertanto in una situazione in cui da un lato viene esaltato il mito della donna potente e sessualmente assertiva e dall’altro ricevono insulti e umiliazioni quando provano ad incarnarlo.

Alle giovani donne, infatti, viene data l’illusione di poter acquisire status e potere attraverso la propria sessualità; quello che sono realmente indotte a fare, invece, è auto-oggettificarsi, e il loro tentativo di essere sessualmente assertive, spesso, gli si ritorce contro attraverso lo slut shaming (insulti sessualmente espliciti) o la diffusione di pornografia non consensuale.

Attraverso questi strumenti sono spesso i maschi in realtà ad asserire il proprio potere e la propria sessualità sulle femmine (Shariff, 2015).

I due messaggi di segno apparentemente opposto, a cui le donne sono esposte fin da quando sono poco più che bambine, sono quindi, in realtà, perfettamente coerenti ed affondano le loro radici nel mantenimento omeostatico di una gerarchia sessuale.

Ci scontriamo, qui, con dinamiche più grandi, che riguardano la struttura della società, la distribuzione del potere e tentativi, anche non del tutto coscienti, di mantenere lo status quo rispetto alle relazioni tra i sessi.

L’educazione sessuale è fondamentale, ma da sola non basta, poiché il revenge porn è solo una delle molteplici espressioni di questa gerarchia che cerca di mantenere se stessa.

Questo concetto sembra essere condiviso anche da quegli autori e quelle autrici che preferiscono riferirsi al revenge porn come “violenza sessuale basata sulle immagini” o che la inquadrano come una manifestazione del più grande fenomeno della “violenza contro le donne” (Henry e Powell, 2015). Le diverse manifestazioni di questo fenomeno, il cui legame è riconosciuto dai più, dovranno, infatti, pur essere unite da una qualche variabile e, presumibilmente, il mantenimento di questa gerarchia può essere la variabile chiave.

Per affrontare il fenomeno, quindi, può essere utile inquadrarlo attraverso analisi che colgano aspetti storici, sociologici, antropologici e psicologici del fenomeno della violenza contro le donne.

Capire quale sia la funzione di questi comportamenti può aiutarci a capire come trovare strategie per scardinarli e, in questo senso, una vastissima letteratura femminista viene in nostro soccorso.

Da un punto di vista più pratico, invece, può essere davvero importante aiutare le vittime ad accedere ad ambienti e reti sociali sicuri, in cui possano elaborare il proprio trauma senza subire costanti rivittimizzazioni da chi continua ad oggettificarle per il proprio piacere e da chi le critica aspramente; anche solo se si tratta di nicchie sicure in un ambiente altrimenti sfavorevole, dal momento che non è così immediata né scontata la possibilità di modificare il contesto sociale.

Vale la pena di sottolineare che l’Italia, in questo senso, lo scorso anno ha compiuto un passo importante: la legge 19 luglio 2019 n. 69, all’articolo 10, ha introdotto il reato di revenge porn, con la denominazione di diffusione illecita di immagini o di video sessualmente espliciti.

L’articolo 612 ter del codice penale rubricato “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (revenge porn), cita:

“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video di organi sessuali o a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro.”

Un passo importante, in questo senso, è costituito dalla denuncia: finché non verrà introdotta un’educazione sessuale nelle scuole, difficilmente si potrà prendere consapevolezza degli stereotipi e degli script sessuali cui siamo quotidianamente esposti sia sulle nostre false credenze, che fanno prediligere il licenziamento (quindi ciò che viene considerato “conveniente”) o qualsiasi altra azione di isolamento all’accusa di reato.

La sessualità è un aspetto naturale, così come lo è il condividere momenti intimi. Le azioni scorrette e lesive premeditate, NO.

Non è condannabile il sexting come attività in sé, bensì l’uso che la persona di cui ci fidiamo decide di farne.

Per evitare la diffusione di proprie immagini intime in rete, è sempre opportuno inviare foto di nudo, qualora si scelga di farlo, in cui siano esclusi particolari di riconoscibilità, quali in primis il proprio viso o tatuaggi. È altresì consigliabile chiedere di eliminare foto fatte dal partner, di cui non si gradisce il possesso, davanti a noi. È inoltre raccomandata la protezione dei propri dispositivi mobili attraverso un software antivirus.

In ultimo, prima di chiudere, volevamo rivolgere un messaggio alla donna italiana cui abbiamo fatto accenno, casomai questo articolo dovesse capitarle sottomano.

Vorremmo chiederle scusa per essere stata l’ennesima persona che, parlando di questo fenomeno, ha fatto riferimento alla sua situazione; deve essere dura sopportare l’esposizione mediatica e che tutti abbiano un’opinione a riguardo, altri attori di questa vicenda dovrebbero essere esposti, non lei; speriamo di aver trattato l’argomento in un modo che lei ritenga adeguato e che abbia accanto tante persone che sono dalla sua parte; per quello che vale, ha il nostro appoggio.

Referenze:

Henry, N., & Powell, A. (2014). Beyond the ‘sext’: Technology-facilitated sexual violence and harassment against adult women. Australian & New Zealand Journal Of Criminology, 48(1), 104-118. http://dx.doi.org/10.1177/0004865814524218

McGlynn, C., & Rackley, E. (2017). Image-Based Sexual Abuse. Oxford Journal Of Legal Studies, 37(3), 534-561. http://dx.doi.org/10.1093/ojls/gqw033

Shariff, S. (2015). Sexting and cyberbullying. New York: Cambridge University Press.

Sitografia (casi di cronaca):

https://www.newsweek.com/florida-man-arrested-after-58-porn-videos-photos-link-him-missing-underage-teen-girl-1467413

https://it.mashable.com/4777/maestra-torino-video-hard-revenge-porn-denuncia

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