Scemo, ma non ti rendi conto di quello che hai fatto?”.

Penso che tutti debbano prendere la situazione con grande serietà”.

Ora ti stai preoccupando ma vedrai che poi tutto si aggiusta, non starci male”.

Bello questo lavoro! E se provassimo ad aggiungerci un pezzo un po’ più approfondito?”.

Quante volte nella vita ci capita di parlare sopra agli altri o di sentirci parlare sopra? Sono interazioni apparentemente innocue, talvolta piene delle migliori intenzioni, prive di elementi apertamente aggressivi. Ci si accorge abbastanza in fretta però, soprattutto quando ci si sente vittima di queste affermazioni, di quanto esse risultino intrusive e piene di implicazioni profonde.

Ma io mi rendo conto di aver sbagliato… Forse dovrei sentirmi peggio di quanto sto? O forse per non sentirmi fuori posto devo sentirmi scemo…”.

Eppure mi sembrava di aver gestito la cosa seriamente, evidentemente non riesco ad essere all’altezza, meglio che stia zitto…”.

Forse dovrei davvero allontanare questa preoccupazione ed essere più razionale”.

Il mio modo spontaneo di affrontare questo lavoro non basta, forse dovrei imparare a farlo come lo fa lui!”.

In queste vignette ci sono alcuni elementi comuni.

  • In primo luogo c’è un elemento di preoccupazione del primo attore relativamente alla possibilità interna o esterna: non imparerà mai dai suoi errori, temo che succederà un guaio, ho paura che ci stia troppo male, tutto deve essere perfetto.

    In questa preoccupazione si annida l’ipotesi che l’altro non sia pienamente in grado di farcela da solo o di fare esperienza delle stesse preoccupazioni di cui si sente caricato l’”aggressore”.

  • Quest’ultimo, che evidentemente fatica a gestire queste preoccupazioni, non riesce a far altro che evacuarle (Bion, 1962, 1965) in una forma non mediata dal pensiero, come cruda esternazione di una paura. Così facendo, probabilmente, la persona fa affidamento ad una forma primitiva di pensiero (pensiero magico) secondo cui dare parola all’angoscia potrebbe rappresentare una modalità utile per scaricarla.

    In questo funzionamento si osserva la difficoltà della persona nell’aprire uno spazio di pensiero sulle proprie paure che, percepite quasi come un corpo esterno fastidioso e di cui è necessario sbarazzarsi, debbono essere quanto prima esorcizzate.

  • L’altro attore, la “vittima”, finisce allora per sentirsi sopraffatto dall’intrusività di questa operazione di sovrapposizione, “svuotando” la propria mente dei contenuti e delle rappresentazioni di sé e del problema che si era fatto e sostituendole con le preoccupazioni e le operazioni verbalizzate dell’altro.

L’insieme di questi elementi fa parte di un gioco apparentemente innocuo e quotidiano, ma che se protratto nel tempo può portare a conseguenze ampie e invalidanti.

Lo psicoanalista Christopher Bollas, nel suo volume più classico L’ombra dell’oggetto, descrive questo fenomeno come introiezione estrattiva, ipotizzandolo come un processo parallelo e opposto alla più comune e studiata identificazione proiettiva.

L’identificazione proiettiva viene solitamente descritta come un processo intersoggettivo in cui un soggetto, in difficoltà nel prendere contatto con affetti impossibili da maneggiare e comprendere, finisce per liberarsi di queste parti di sé proiettandole sull’altro, rendendolo manifestazione vivente dei propri sentimenti più fastidiosi.

Questo meccanismo può rappresentare per la persona l’unico modo per entrare in contatto con il proprio mondo affettivo. Ad esempio, A potrebbe essere in difficoltà nel contattare e gestire i propri sentimenti rabbiosi, cui non riesce a dare una forma nella sua mente. Nella relazione con B, A potrebbe allora cominciare a comportarsi in maniera così fastidiosa e oppositiva da suscitare in B una profonda collera, obbligandolo così a “sopportare” le proprie esperienze indesiderate.

Nella introiezione estrattiva succede quasi l’opposto:

una persona, per un certo periodo di tempo, ruba un elemento della vita psichica di un’altra. Questa violazione intersoggettiva avviene quando l’aggressore (d’ora in poi A) automaticamente suppone che l’aggredito (d’ora in poi B) non abbia un’esperienza interna dell’elemento psichico rappresentato da A”.

La natura della proposta di Bollas mi ha particolarmente colpito in relazione alla mia esperienza professionale nell’ambito dell’infanzia e adolescenza come tutor dell’apprendimento.

Non è infrequente notare, nei ragazzi con disturbi specifici dell’apprendimento e con difficoltà di apprendimento, un assetto di scarsa fiducia nel proprio pensiero, nonché l’apparente impossibilità di vivere l’esperienza dell’imparare con quella curiosità e quello spirito critico tipici rispettivamente dell’infanzia e dell’adolescenza.

I modelli attualmente in voga nello studio e nell’approccio dei disturbi di apprendimento mantengono spesso il focus della nostra attenzione sul disturbo funzionale, lasciando spesso in un primo momento da parte le ricadute affettive e relazionali, che finiscono allora per essere considerate un esito secondario del disturbo, della difficoltà e della fatica ad esso connesse.

D’altro canto, cambiando per un attimo il vertice osservativo di questi fenomeni, si osserva come questi stessi ragazzi tendano a porsi nella relazione in due modalità tra loro antitetiche ma che ruotano attorno al tema comune della richiesta di aiuto:

  • Da un lato la ricerca dell’altro come un elemento strutturante e formante del pensiero, fino all’aspettativa di trovare nell’altro qualcuno che “pensi al posto loro”.
  • Dall’altro la totale chiusura relazionale, un assetto più difensivo che, mi verrebbe da dire, potrebbe plausibilmente essere mosso dallo stesso presupposto precedentemente descritto.

È ipotizzabile che queste rappresentazioni di sé e dell’altro (rappresentazioni oggettuali) non siano semplice esito dell’esperienza della difficoltà e del disturbo funzionale, ma di un particolare tipo di maneggiamento di queste difficoltà con ricorso a processi di introiezione estrattiva, nel contesto familiare o negli ambienti di socializzazione secondaria, in particolar modo nella scuola.

Di fronte all’insorgere di difficoltà o disfunzionamenti in ambito scolastico, la preoccupazione verso la possibilità di essere un buon genitore o un buon insegnante può infatti frapporsi fra me e il ragazzo, con il rischio di esprimersi in un intervento intrusivo. In questa interazione la mia ipotesi iniziale, ovvero che il ragazzo possa non essere in grado di farcela, di pensare per sé, di gestire con maturità i suoi doveri, ecc…, può finire per prendere la forma di un’appropriazione illecita di strutture e processi mentali.

Riprendendo infatti l’argomentazione di Bollas:

se A denigra la capacità di B di pensare di testa propria, e si attribuisce la funzione di pensiero, la struttura mentale che genera il penisero razionale e la capacità di risolvere porblemi viene distrutta, e B non si sentirà in grado di risolvere alcun problema. In effetti, potrà essere lasciato in uno stato di sturpore con scarsa fiducia nel pensiero stesso, dato che ora considera il pensare un’impresa pericolosa, in cui si sente ansioso o minacciato”.

Il furto di strutture mentali, come inserimento intrusivo dell’adulto fra il ragazzo e la possibilità di strutturare una propria modalità di far fronte ai problemi, diviene così l’esito più infausto, alimentando non solo la natura della difficoltà ma anche quello strascico di vissuti di impotenza e di bisognosità che non è difficile incontrare nel lavoro con questi ragazzi.

Che cosa fare da un punto di vista operativo?

Di sicuro questo tipo di riflessioni ci può essere d’aiuto nell’essere d’aiuto a questi ragazzi su vari livelli, in qualità di genitori, di insegnanti o di tutor.

Su un piano soggettivo, avere in mente queste dinamiche può esserci utile per scrollarci dalle spalle alcune aspettative provenienti dall’altro, che spesso sono motivo di frustrazione o portano all’instaurazione di relazioni potenzialmente dannose.

È facile infatti che di fronte ad una persona che ha una percezione così parziale delle possibilità di funzionamento della propria mente, ci si possa sentire oggetto di un interesse ammirato o dell’aspettativa magica di poter supplire alle sue mancanze: insomma dei supereroi!

Questo atteggiamento del ragazzo rischia molto spesso di colludere con le nostre fantasie narcisistiche, con il semplice desiderio di potersi sentire importanti per qualcuno o di aiutare qualcuno che si ama.

D’altro canto, il fulcro del lavoro con questi ragazzi è proprio la possibilità di restituire loro l’idea di potercela fare affidandosi alle proprie risorse personali, un obiettivo perseguibile non solo a livello operativo (con l’impiego di adeguate strategie di studio e di adeguati strumenti) ma anche a livello relazionale.

Il discorso si sposta allora dalle frasi autoriali e ispiranti al porre continue domande sull’esperienza interna del ragazzo; dal fornire istruzioni alla negoziazione di modalità operative; dall’insegnamento (in-signare, lasciare il segno) all’educazione (e-ducere, trarre fuori, accompagnare verso la crescita).

Diviene in sintesi necessario interrogarci sulle modalità in cui rispondiamo a questi bisogni, distogliendo il focus dalla preoccupazione di svolgere un buon lavoro e riportandolo sul ragazzo, sui suoi bisogni, sui suoi punti di vista, aiutandolo a ri-scoprire le proprie risorse.

Possiamo farlo ripercorrendo con la mente sia i nostri successi che i nostri fallimenti, che spesso possono insegnarci molto su questo punto: il mio fallimento educativo non sarà forse stato esito della riproposizione di un modello relazionale verticale, intrusivo, dissintono?

Spesso anche le migliori intenzioni conducono ad esiti spiacevoli, per sé e per l’altro: la cosa fondamentale è non perdere mai lo spirito critico, la propria bussola osservativa e il continuo porsi domande anche su quegli elementi più sottili, sottopelle che, a volte quasi impercettibilmente, prendono forma nella relazione.

Proprio a questo livello, che Bollas definisce “estetica della relazione di cura”, si trasmettono una serie di contenuti che, seppur privi di una dimensione verbale, appaiono decisivi nel momento in cui ci si prende cura dell’altro e, così facendo, si insegna all’altro a prendersi cura di sé.

 

Riferimenti

Bion W. (1962), Apprendere dalla esperienza, Armando, Roma.

Bion W. (1965), Trasformazioni, Armando, Roma.

Bollas C. (2018), L’ombra dell’oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato, Raffaello Cortina Editore, Milano.

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