Ci sono delle volte, nel mio lavoro, in cui avresti voglia di piangere. Vorresti lasciarti andare, di fronte al dolore di chi ti sta davanti. Abbandonarti.

Ma non puoi, un po’ per dignità professionale o personale, un po’ perché quello è il dolore di qualcun altro, e un po’ hai la sensazione che se lo facessi, se ti concedessi ogni tua reazione, beh… glielo ruberesti. Rapito dalla sua magnificenza, lo useresti; per rispetto, ti astieni.

E allora devi aspettare, tornare a casa, e se sei fortunato potrai arrivarci dopo, quando sarai finalmente solo. Il tuo tempo delle emozioni.

Ma ci sono anche dei libri, libri di psicoterapia, che ti lasciano il regalo di partecipare a quell’esperienza, la sensazione di essere lì, ma dalla comodità del tuo divano, quando senza vergogna puoi adagiarti.

E lo so anch’io che è un po’ fuori luogo parlare di bellezza quando entra in gioco la sofferenza degli altri, ma dopotutto, senza lo stupore per l’umano nelle sue contraddizioni, la sua grazia e le sue miserie, forse avrei scelto un altro lavoro.

La sfida dell’adozionedi Luigi Cancrini, edito Raffaello Cortina, è un libro così. Racconta la terapia, condotta in setting familiare, di un ragazzo con diagnosi di personalità borderline che alla fine riesce, grazie ad una straordinaria famiglia adottiva e ad un intervento terapeutico decisamente molto riuscito, a superare una importante crisi.

Può quindi continuare con più serenità quel processo, che come sappiamo non può avere fine, di continuare a costruire sé stesso.

Ma come spesso accade, anche qui è il viaggio che affascina; dopotutto, ogni happy ending che abbiamo la fortuna di vivere non è che l’inizio di un nuovo capitolo. Preceduto da una sequenza di diapositive di cui siamo noi a selezionare l’importanza, esaltando quelle che, nel bene o nel male, hanno punteggiato delle svolte oppure (più raramente) delle inversioni di marcia. Eccone un paio di esempi, tra quelle di questo libro che mi hanno mosso il cuore.

Il protagonista della storia è in primo luogo una famiglia, ma in particolare è la storia di due ragazzi che, tolti alla famiglia naturale in Ucraina, sono stati dapprima affidati ad un istituto statale di quel Paese per poi essere adottati.

Tra i due il maggiore, che porta con sé una diagnosi di disturbo borderline per la quale è seguito dai Servizi, pare essere quello che più dell’altro si trascina appresso le cicatrici di un’infanzia costellata di traumi ed abbandoni.

In una fase intermedia della terapia, ricorda con commozione i suoi compagni di istituto, rimasti, a differenza sua, senza alternative agli enormi muri ed alle camerate in cui si svolgeva la loro vita prima dell’adozione.

Si chiede con tristezza che vita avranno fatto e si domanda, con un po’ di senso di colpa, che cosa lo differenzi tanto da loro, da meritare delle chances che probabilmente non avranno mai.

“Cioè, io sono felicissimo di avere dei genitori, gli voglio un bene assurdo, sono sicuro che lo sanno e che lo hanno capito, però ogni tanto mi vengono in mente delle scene

di quei ragazzi che rimarranno per sempre lì e che faranno? Lotteranno un giorno per portare un pezzo di pane a casa se avranno mai una casa. Non so, io ancora mi sento di far parte di quel mondo lì.”

Mi è venuto da pensare che per qualche meccanismo profondo, legato forse agli antichi concetti di lealtà e di comunione, le persone si legano tanto più fortemente quando condividono le avversità e le sofferenze oltre che i momenti felici.

Mi sono chiesto se questo meccanismo, misterioso e così profondamente umano, non sia poi quello che lega quei signori ormai anziani che però un giorno furono, insieme, giovani combattenti.

Più avanti, Cancrini ci racconta un esempio di quel momento, centrale secondo il suo modello di intervento in caso di adozione, in cui vengono esaminate “le carte”. Sono i documenti, le testimonianze, nettate di ogni emozione e colore, di ciò che sono state lacrime e abbracci, risate e strappi, incontri e separazioni.

I due fratelli arrivano al colloquio portando con sé la convinzione, stratificata negli anni, che i genitori avessero scelto intenzionalmente di affidarli allo stato, impossibilitati dalle circostanze o dalla volontà a mantenere il ruolo genitoriale.

Dopo altre conversazioni, il terapeuta e la famiglia tutta stanno per chiudere il faldone, restituendolo a qualche scaffale. E allora Cancrini, con un semplice commento: “C’è scritto anche quando i loro genitori sono stati privati della potestà”.

Una banale costatazione, diremmo; ma una frase quasi casuale che avvia una valanga di eventi, psicologici e non, basati sulla necessità, da parte dei ragazzi, di ricostruire la narrazione attorno alla quale avevano vissuto l’adozione: l’idea cioè che i genitori avessero volontariamente rinunciato a loro. La scelta invece non era stata voluta, ma subita, e possiamo solo sforzarci di immaginare quanto questo possa significare per un figlio allontanato dalla sua famiglia di origine.

L’ultima considerazione che mi sento di fare su questo libro riguarda l’abilità del terapeuta di farsi “timoniere in acque agitate”: riuscire cioè, come spesso capita nella psicoterapia con gli adolescenti, ad essere in grado di rinunciare alle proprie cartine, bussole e a tanto di ciò che costituirebbe un rassicurante supporto al suo intervento.

Navigare a vista o, come ebbe a dire Napoleone quando qualcuno gli chiese come sceglieva la strategia per le sue celebri battaglie: “Si comincia, e poi si vede”.

Riferimenti bibliografici

Cancrini, L. (2020). La sfida dell’adozione. Cronaca di una terapia riuscita. Milano: Raffaello Cortina

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