L’ombra dell’oggetto, Psicoanalisi del conosciuto non pensato” è uno tra i più importanti libri di Christopher Bollas, originariamente pubblicato nel 1987 e recentemente ripubblicato da Cortina.

Vai alla scheda del libro: http://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/christopher-bollas/lombra-delloggetto-9788832850499-2854.html

Bollas, psicoanalista britannico contemporaneo di spicco, umanista e sofisticato scrittore, sviscera all’interno del suo libro il concetto del conosciuto non pensato, che ha origine nell’”essenza della vita prima dell’esistenza della parola”, e che lui ha avuto modo di esplorare attraverso il suo lavoro con giovani schizofrenici e autistici, impossibilitati a tradurre la loro esperienza in parole.

Con questo filo conduttore suddivide il suo libro in tre sezioni: L’ombra dell’oggetto, Stati d’animo, e il Controtransfert, sezioni attraverso le quali accompagna il lettore a scoprire come il linguaggio in psicoanalisi consenta di rivivere ciò che è stato vissuto ma non pensato in epoche di vita precoci e in cui lo stare con e l’essere si sovrappongono.

In ragione dell’estrema complessità del materiale da lui trattato, ho preferito soffermarmi sulla prima parte del libro, intitolata proprio L’ombra dell’oggetto.

L’ombra dell’oggetto cadde così sull’Io che d’ora in avanti poté essere giudicato da un’istanza particolare come un oggetto, e precisamente come l’oggetto abbandonato. In questo modo la perdita dell’oggetto si era trasformata in una perdita dell’Io, e il conflitto tra l’Io e la persona amata in un dissidio tra l’attività critica dell’Io e l’Io alterato dall’identificazione. 

Il libro si apre con questa citazione di Freud (1917), una tra le più significative del suo lavoro inerente il processo di lutto e di malinconia, nonché tra le più enigmatiche del suo scritto.

Per comprendere questa frase è necessario rifarsi alla clinica, che mostra come gli stati depressivi si caratterizzino per un’identificazione con l’oggetto perduto (reale o fantastico), amato con grande ambivalenza. Pertanto, secondo Freud, una volta identificatosi con l’oggetto il malinconico rivolge verso di Sé l’odio che prima provava per la persona perduta, facendo sua l’ombra che prima apparteneva all’oggetto.

Bollas riprende il concetto dell’ombra dell’oggetto soffermandosi sugli stati vitali primari, ossia sulle primissime esperienze infantili, caratterizzate dall’assenza del linguaggio verbale.

L’autore spiega come l’oggetto, in questa prima fase di vita, getti la sua ombra, i suoi dolori, le sue esperienze penose inconsce sul bambino senza che il piccolo abbia gli strumenti per dare un nome a questi stati.

Si tratta di qualcosa di molto profondo che diviene fondante dell’essere del bambino e della sua esperienza, senza che esso possa tuttavia essere tradotto in parola, e conseguentemente senza che possa essere tramutato in pensiero. Ed è qui che subentra il lavoro dell’analisi, precisa Bollas: consentendo l’emergere nel pensiero dei più antichi ricordi dell’essere, facendo esperienza con il linguaggio di ciò che è stato vissuto, conosciuto, ma non pensato.

Sostando sulle prime esperienze infantili, si ispira alle teorizzazioni di Winnicott inerenti all’holding primario, e definisce un ulteriore concetto che chiama “l’idioma di cura“. L’idioma di cura è il dialetto costituito dal modo in cui la madre si occupa del bambino, il modo in cui lo tiene, in cui risponde ai suoi gesti, ne sceglie gli oggetti e ne percepisce i bisogni interni. Questa “danza” genera un discorso privato a cui possono partecipare solo loro due, la mamma e il bambino, e che crea un linguaggio intersoggettivo esclusivo.

Questo idioma privato connota la prima esperienza trasformativa dell’essere umano.

In che modo? L’autore si rifà anche in quest’occasione ai lavori di Winnicott, riprendendo il concetto di “madre ambiente”, che facilita la crescita e l’adattamento del proprio bambino attraverso i rituali psicosomatici (cura del corpo e degli stati emotivi del bambino), consentendo la trasformazione dei suoi stati interni ed esterni: appagamento, sazietà, rispecchiamento… Bollas descrive l’esperienza della madre che altera costantemente l’ambiente del bambino per soddisfarne i bisogni come un processo trasformativo.

Questa esperienza di un oggetto e di un processo trasformativo definisce un ricordo implicito del primo rapporto oggettuale.

Gradualmente, la progressiva assenza della madre unitamente all’aumentare delle competenze del bambino (motilità, linguaggio, ecc), va generando l’oggetto transizionale, che consente lo spostamento del processo trasformativo dall’ambiente madre a innumerevoli oggetti soggettivi in cui il bambino diviene protagonista.

Questo processo di ricerca di esperienze e oggetti trasformativi continua nell’arco di tutta la vita, e si manifesta nella ricerca di un oggetto (una persona, un luogo, un evento o un’ideologia) che prometta di trasformare il Sé, così come il Sé è stato trasformato dalla madre che ha contribuito all’integrazione dell’essere del bambino.

A questo riguardo trovo molto bello ciò che scrive Bollas sulle ricerche dell’oggetto da adulti, ovvero: “nella vita da adulto la ricerca non è orientata al possesso dell’oggetto: esso è cercato per arrendersi a esso come a un medium che altera il Sé”, ovvero per la sua funzione di significante del processo di trasformazione.

Secondo Bollas, l’esperienza estetica, intesa come il piacere che deriva dall’essere abbracciati da una poesia, una composizione, un quadro o qualsiasi oggetto ha le sue fondamenta nei momenti in cui il mondo interiore del bambino riceve una forma dalla madre. Pertanto, secondo l’autore, il momento estetico fa parte del conosciuto non pensato.

Il dolore della fame, un momento di vuoto, viene trasformato dal latte della madre in un’esperienza di sazietà. Questa è una trasformazione primaria: vuoto, sofferenza e rabbia diventano sazietà e soddisfazione. L’estetica di questa esperienza è il modo particolare in cui la madre soddisfa il bisogno del bambino e trasforma le sue realtà interne ed esterne. Secondo Bollas, quindi, il bambino incorpora, insieme al latte, la nuova esperienza gratificante e l’estetica della cura. Il bambino non assume solo i contenuti, ma anche la forma della comunicazione materna.

La madre trasmette la sua estetica attraverso il suo modo di stare con il bambino, e il bambino è e sente di essere primariamente rispecchiandosi nello psiche-soma della madre. Questa è, secondo Bollas, una condizione in cui l’essere curati dall’estetica materna rende il pensiero apparentemente irrilevante per la sopravvivenza.

Solo successivamente, nel caso in cui ci sia stata, per dirla con Winnicott, una “madre sufficientemente buona”, l’estetica dell’idioma di cura materno lascia posto alla struttura del linguaggio, e a questo punto l’essere può essere detto. Con la parola il bambino ha accesso a un nuovo oggetto trasformativo in cui può emergere e dire il Sé dando vita a un’estetica individuale.

Questo ci porta all’ultimo tema fondamentale trattato in questa prima sezione: il rapporto con il Sé come oggetto. Con questo concetto, a tratti ambiguo ed enigmatico, Bollas sostiene che ogni adulto gestisce aspetti di sé stesso come una madre o un padre gestivano il Sé bambino. Nello specifico, Bollas scrive che attraverso l’esperienza di essere l’oggetto dell’altro, esperienza che viene interiorizzata, si crea un senso di essere in due in un essere solo, e questo ci permette di meglio rivolgerci al nostro vero Sé in qualità di altro da noi: usiamo il modo in cui siamo stati curati e immaginati per gestire e oggettivare il nostro Vero Sé.

Ciò è particolarmente importante all’interno della cura psicoanalitica. Secondo Bollas, l’analista dovrà essere disposto a farsi usare come oggetto abbandonandosi all’idioma di cura interiorizzato del paziente che verrà riproposto in analisi e consentendo un incontro intrasoggettivo nel quale una lingua arcaica, non verbale, può essere ascoltata, interpretata e trasformata.

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