L’aggressività distruttiva intraspecifica […] appare più diffusa e prende forme diverse (inclusa la tortura e il suicidio) in Homo Sapiens rispetto alle popolazioni di qualunque altra specie animale” (Liotti et al., 2017, pag. 51).

Cosa ci rende capaci di agiti violenti nei confronti nei nostri conspecifici esseri umani? Così intesa la violenza appare onnipresente in qualsiasi contesto, luogo e tempo storico dell’umanità; eppure la sua funzione, i meccanismi retrostanti e la sua stessa esistenza non sono scontati.

In un’ottica evoluzionistica la violenza, specialmente quella che culmina nell’omicidio, appare anticonservativa della specie. Com’è possibile quindi che si manifesti così frequentemente e che abbia assunto, nel corso dei secoli, la forma di conflitti capaci di generare anche milioni di morti?

Diversi autori hanno cercato di dare un senso alla violenza distruttiva degli umani. Tra quelli a me più cari ci sono i saggi filosofici e politici di Hanna Harendt, i contributi in psicologia sociale di Stanley Milgram e Chiara Volpato oltre ai diversi studi neuroscientifici che hanno vagliato l’ipotesi di deficit cerebrali.

Ammetto tuttavia che ad un certo punto tutti i più recenti interventi mi apparivano vertere sempre sugli stessi argomenti e poco a poco mi sono disinteressato all’argomento.

Solo di recente mi sono imbattuto in un capitolo dell’ultimo libro di Giovanni Liotti, scritto assieme a Giovanni Fassone e Fabio Monticelli, “L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali”, edito Raffaello Cortina, il quale ha risvegliato in me l’interesse per l’argomento.

Giovanni Liotti è il principale sviluppatore della Teoria Evoluzionistica della Motivazione (TEM), all’interno della quale egli postula che ogni tipo di comportamento adattivo, finalizzato alla sopravvivenza di sé e della specie di appartenenza, si manifesta, in base all’obiettivo, attraverso una sequenza di comportamenti, pensieri ed emozioni tipiche.

Questi sistemi di comportamenti, cognizioni ed emozioni organizzate, definiti Sistemi Motivazionali, sono stati selezionati durante l’evoluzione della nostra specie, in quanto capaci di facilitare il raggiungimento di obiettivi che servono alla preservazione della specie.

Inoltre, il cervello umano è strutturato in maniera gerarchica su tre livelli che si sono evoluti in tre momenti diversi della storia dell’uomo. Dal più arcaico al più recente questi sistemi cerebrali sono: il cervello rettiliano, quello limbico e infine la neocorteccia.

Ognuno di questi sistemi regola condotte specifiche: non-sociali il cervello rettiliano, come le condotte aggressive predatorie e difensive, sociali il cervello limbico, che regola, tra le altre, le capacità di cooperare e di competere per un fine, e infine le strutture neocorticali, che svolgono una funzione regolatrice sulle prime due e lavorano per dare senso e significato all’esperienza.

Se per esempio ho fame il mio cervello attiverà due sistemi motivazionali arcaici, uno che regola le cosiddette funzioni omeostatiche, predisponendomi alla ricerca di cibo, e l’altro, definito esploratorio, che motiverà il mio corpo a muovermi nello spazio allo scopo di raggiungere l’obiettivo.

Fatto questo, non mi muoverò a caso nello spazio poiché grazie alle informazioni contenute nella neocorteccia potrò indirizzare i miei movimenti esploratori verso il frigo, che so essere un luogo dove con una certa probabilità potrò individuare gli alimenti di cui abbisogno.

Laddove però dovessi constatare l’indisponibilità di elementi nutritivi nel frigo, percependo l’insoddisfazione che ha generato il mio primo tentativo di trovare una soluzione e il disagio interno che permane con la fame, sempre utilizzando le conoscenze immagazzinate nella mia neocorteccia, potrà attivarsi nuovamente il sistema esploratorio il quale mi predisporrebbe ad avventurarmi, per esempio, nel supermercato vicino a casa.

In alternativa, potrebbero innescarsi contemporaneamente i comportamenti e le emozioni tipiche del sistema di affiliazione e quindi potrei sentirmi motivato a chiedere al mio vicino se mi può prestare un po’ di pasta. A quel punto, una volta raggiunti i vari obiettivi, i sistemi motivazionali precedentemente in funzione si disattiverebbero in sequenza.

Nel libro dal quale sto estrapolando i suddetti concetti, tutti questi elementi vengono approfonditi con maggior minuzia.

Fatta questa breve premessa teorica, torniamo al quesito iniziale. Sinteticamente, in ambito clinico, punto di osservazione privilegiato del testo, si sono susseguite diverse ipotesi in merito all’esistenza della violenza, la più importante tra queste è sicuramente la teoria di Sigmund Freud, nella quale egli postulò l’esistenza di un istinto primario e universale che chiamò Thanatos, o istinto di morte, complementare ad un altro istinto denominato Eros, o istinto di vita.

Oltre a questa ipotesi metapsicologica, che la prospettiva evoluzionista non contempla per mancanza di fondatezza scientifica e poiché di logica opposta a quella dei dettami dell’evoluzione, vi sono altre spiegazioni plausibili.

Una prima teorizzazione è stata formulata da Richard Dawkins (1976), secondo il quale il rischio di ritorsione della violenza sarebbe così grande da aver spinto le specie animali, nel corso dell’evoluzione, a sviluppare un meccanismo di inibizione dell’aggressività distruttiva intraspecifica che si costituirebbe come Strategia Evolutivamente Stabile (SES), ovvero una strategia che non può essere modificata in quanto ogni possibile variazione avrebbe un effetto penalizzante.

A reggere questa ipotesi è l’idea che sia il riconoscimento della somiglianza tra conspecifici il meccanismo alla base della suddetta SES; il che fornisce una buona spiegazione di come mai vi sia in natura un numero molto più alto di agiti aggressivi fra membri di specie differenti e, nell’uomo, fra individui conspecifici ma con caratteristiche differenti: parliamo di forme di violenza come il femminicidio, la pedofilia e le aggressioni razziali.

Tuttavia, questa spiegazione non appare sufficiente in quanto, secondo Liotti, non si spiega come mai tra gli altri animali la frequenza di agiti aggressivi tra conspecifici sia comunque minore, nonostante accada sovente che le differenze tra individui della stessa specie siano più evidenti.

Di conseguenza Liotti, dando sostegno alla teorizzazione di Blair (1995), propone l’esistenza di un Meccanismo di Inibizione della Violenza (MIV), selezionato nel corso dell’evoluzione anche per via dello sviluppo di capacità come quelle di formare legami sociali, sessuali e di accudire la prole, capaci di generare vantaggi adattivi importanti per la preservazione della specie Homo Sapiens.

Sembra un paradosso ma secondo Liotti proprio il MIV avrebbe favorito lo sviluppo di uno dei più sofisticati sistemi motivazionali limbici, detti interpersonali (SMI), impegnato proprio nella regolazione delle condotte aggressive non distruttive: il sistema motivazionale di competizione per il rango sociale.

Questi si manifesterebbe in quelle condizioni in cui risulta necessario sancire, all’interno di un gruppo, il chiaro accesso preferenziale alle risorse ambientali, di qualunque tipo esse siano (viveri, sesso, ecc.). Tale sistema offre il vantaggio di rendere stabile l’organizzazione sociale evitando il protrarsi per tempi prolungati degli scontri.

L’aggressività che deriva da questo SMI è orientata, diversamente dal sistema predatorio che motiva a ledere l’opponente, a indurre nel competitor la resa e di conseguenza la subordinazione. Nel momento in cui lo sconfitto manifesta i segnali tipici della resa, secondo Blair (1995), nel vincitore emergono degli stati protoemotivi caratterizzati da uno sgradevole senso di riluttanza nel proseguire la lotta, garantendo la sopravvivenza del vinto, e quindi della specie.

Tali vissuti sarebbero, sempre secondo Blair, alla base delle esperienze emotive morali di colpa e rimorso.

Secondo la TEM, devono esserci però dei fattori ambientali e individuali che impediscono al MIV di svolgere la sua funzione regolatrice su comportamenti ed emozioni:

  • Il sovraffollamento o, all’opposto, la deprivazione sociale. Per quanto concerne la mancanza di contatto sociale, ovvero la rottura di un legame, Lorenz (1963) sosteneva che dietro ogni legame d’amore si celasse, latente, l’odio. Nel momento in cui il legame si rompe, questi emerge in forma di aggressività.

Nel caso opposto del sovraffollamento, è difficile che da solo sia un fattore sufficientemente impattante da spingere un individuo a commettere un omicidio, mentre appare un fattore facilitante delle condotte aggressive (Morris, 1967).

Tuttavia, se si considera l’effetto combinato che possono avere la condizione di sovraffollamento e le nostre funzioni mentali superiori, è possibile comprendere come la nostra tendenza a cooperare sia essa stessa la causa dei continui massacri a cui assistiamo, più o meno direttamente.

Le capacità concettuali del nostro cervello comporterebbero ovvero l’effetto paradossale di inficiare il MIV e di metterci gli uni contro gli altri in nome di etichette gruppali come razza, stato, valori culturali e altre.

La lealtà è diventata lealtà nel combattere e così è nata la guerra. È un’ironia che la causa fondamentale di tutti i più grandi orrori della guerra si è stata l’evoluzione di un impulso profondamente radicato di aiutare i nostri simili” (Morris, 1967, pag 188). T3

Che il pensiero concettuale possa produrre degli effetti antievoluzionistici sarebbe dovuto al fatto che questo non sarebbe, secondo la TEM, un prodotto diretto dell’evoluzione, come i sistemi motivazionali, selezionato nel tempo per risolvere problemi specifici, ma un sottoprodotto emergente proprio da quei primi meccanismi adattivi.

Si parla a tal proposito di pennacchi evoluzionistici o di exattamento, ovvero di caratteri che vengono utilizzati per risolvere alcuni problemi pur non essendo stati selezionati per quello specifico compito. Essi, pertanto, godono di una libertà maggiore rispetto ai valori dell’adattamento.

Ciò implica che siano “compatibili tanto con l’incremento quanto con l’indebolimento di preesistenti SES, quale è il MIV” (pag 56).

  • Fattori sociologici come una protratta immaginazione della violenza, generata dalla diffusione sempre maggiore di contenuti multimediali violenti, potrebbe causare l’attivazione del sistema predatorio e favorire il collasso del MIV.

Ciò accadrebbe per via della riduzione progressiva della sensibilità alla riluttanza (Mrug, Madama, Winslet, 2016), segnale tipico, come dicevamo più sopra, dell’attivazione del MIV.

Ma pure l’apprendimento per imitazione (modeling), se rinforzato da uno stato di eccitamento, esperienza correlata all’attivazione del sistema predatorio, potrebbe inficiare le capacità regolatorie del MIV.

Infine, l’effetto di ottundimento dell’empatia generato dai meccanismi di deumanizzazione (Volpato, 2012), rivolti alle minoranze o ai nemici, favoriscono sia fantasie che agiti distruttivi nei confronti degli stessi.      

  • Fattori psicologici legati all’attaccamento. Bowlby, padre della teoria dell’attaccamento, riteneva che gli abusi perpetuati dai genitori sui figli fossero la conseguenza di una tensione abnorme tra il sistema motivazionale di attaccamento e quello di accudimento.

Le manifestazioni emotive e comportamentali tipiche di questa tensione sono state concettualizzate in quello che viene chiamato stile di attaccamento disorganizzato.

In alcuni genitori, con esperienze dello sviluppo fortemente traumatiche, accadrebbe una sorta di inversione dell’attivazione dei due sistemi durante le interazioni con i propri figli. In questi casi nel genitore non si attiverebbe il normale sistema di accudimento, volto alla cura del figlio, ma quello dell’attaccamento, generando un’inversione di ruolo.

La collera è una delle emozioni associate all’attivazione del sistema di attaccamento e funge da richiamo dell’attenzione verso un caregiver disattento (pensiamo a quando i bambini, non trovando conforto, strillano rabbiosi cercando di invitare il genitore ad accudirli), ma pure del sistema di accudimento: pensiamo a quando i genitori si arrabbiano con la prole che si è messa a rischio agendo comportamenti pericolosi.

Nel caso in cui, nel genitore, si dovesse manifestare tale tensione abnorme, conseguente all’innesco del sistema dell’attaccamento, la rabbia potrebbe manifestarsi nella forma di agiti aggressivi, sebbene non ancora distruttivi.

Tali comportamenti potrebbero essere letti dal bambino come predatori e portarlo ad attivare il sistema di difesa per la sopravvivenza, che può manifestarsi anch’esso con atti di contro-aggressione. A questo punto però il genitore potrebbe reagire incrementando la dose di rabbia facendosi anche fisicamente violento.

Secondo la prospettiva proposta dalla TEM, oltre al sistema di attaccamento e accudimento, potrebbe concorrere a generare lo stato di tensione abnorme anche il contemporaneo innestarsi del sistema di difesa o di predazione, sistemi rettiliani in cui non è implicata l’azione del MIV.

Bambini che vivono esperienze traumatiche di estremo abbandono o violenza disorganizzata possono sviluppare l’aspettativa che alla cura segua temporalmente la violenza o che ad un pericolo per la propria sopravvivenza non corrisponderà un movimento di accudimento da parte del caregiver, capace di disattivare il sistema di difesa.

Di conseguenza, “la tensione dinamica abnorme fra i sistemi di attaccamento e di difesa è presumibilmente una delle condizioni capaci di ridurre l’efficienza del MIV, perché costituisce una fonte di sovrastimolazione del sistema di difesa per la sopravvivenza (di cui l’aggressività distruttiva è possibile manifestazione)” (pag 62).

Ma tale sovrastimolazione ha anche un’ulteriore conseguenza secondo Liotti: al suo seguito potrebbe innescarsi nuovamente il sistema di attaccamento il quale, non essendo soggetto al controllo del MIV, faciliterebbe l’attivazione del sistema agonistico e di conseguenza la ritualizzazione dell’aggressività, aggirando quindi il meccanismo di inibizione dell’aggressività distruttiva fra conspecifici.

Infine, per Liotti, i sistemi di ordine superiore, all’interno di queste dinamiche, motiverebbero la costruzione di Modelli Operativi Interni (MOI), ovvero memorie capaci di generare aspettative nel contesto di interazioni interpersonali di attaccamento, che causerebbero “l’abnorme tensione dinamica fra accudimento e attaccamento nel genitore, e quindi a costituire i primi motori della disorganizzazione dell’attaccamento nei bambini” (pag. 62-63).

Ciò che fa propendere verso l’ipotesi secondo la quale la disorganizzazione dell’attaccamento possa essere una condizione capace di disinnescare il MIV, è la constatazione che il MOI dell’attaccamento disorganizzato acquisito nell’infanzia tende a mantenersi nel corso dell’età adulta.

Affinché però l’attaccamento disorganizzato divenga un deterrente di condotte aggressive distruttive, sembra essere necessario che l’individuo sia sottoposto a traumi psicologici cumulativi durante lo sviluppo (De Zulueta, 2008).

  • Fattori psicopatologici. Attraverso lo studio della psicopatologia è possibile, alla luce degli assunti derivati dalla TEM, differenziare quei casi in cui l’aggressività è generata dall’intento di difendersi (sistema di difesa per la sopravvivenza) da quelli in cui la motivazione principale è la distruzione dell’oppositore (sistema predatorio).

Quando l’aggressività è accompagnata da paura e collera essa è di natura difensiva; mentre quando tale agito è dettato da uno stato di piacevole eccitamento, piuttosto che da vere e proprie emozioni, allora è stato innescato dal sistema predatorio.

L’aggressività difensiva è più tipica di disturbi come il Disturbo da Stress Post Traumatico, il Disturbo Borderline di Personalità e il Disturbo dell’Identità Dissociativo; tutti disturbi la cui genesi è associata a esperienze altamente traumatiche e che sono accumunati dalla disorganizzazione dell’attaccamento precoce, correlata a sua volta all’iperstimolazione del sistema di difesa.

Non sorprende invece che l’aggressività di tipo predatorio sia invece più tipica del Disturbo Antisociale di Personalità e delle varie forme di Psicopatia.

Sembrerebbe che negli psicopatici si possano riscontrare, tra le altre, delle anomalie in strutture limbiche come il giro del cingolo, l’amigdala e l’ippocampo che, ricordiamolo, sono le strutture evoluitesi per regolare le interazioni sociali ed emozioni come la colpa, il rimorso, la collera e in generale l’empatia.

Ciò potrebbe determinare una più facilitata connessione tra la corteccia orbitofrontale, sede di alcune funzioni mentali superiori tra le quali l’elaborazione delle emozioni sociali, e il tronco encefalico, sede invece dei sistemi motivazionali più primitivi; il che, pertanto, comporterebbe un malfunzionamento del MIV.

Gli psicopatici sembrano infatti incapaci “di distinguere fra condotte eticamente inaccettabili perché implicano sofferenza nella vittima, e condotte inaccettabili perché proibite dalle convenzioni sociali ma non implicanti dolore soggettivo” (Blair, 1995; da Liotti et al, 2017, pag 65). Tale distinzione è invece riconosciuta dal gruppo dei pluritraumatizzati.

Un ulteriore riflessione riguarda il fatto che, secondo uno studio di Maffert e collaboratori (2013), gli psicopatici dimostrano qualche capacità di provare empatia. Ciò suggerisce che non vi sia tanto un deficit globale di empatia ma che invece, secondo Liotti, “l’aggressività distruttiva intraspecifica sia conseguenza della disattivazione (settoriale, contingente, contesto-dipendente) del MIV piuttosto che di altri e più stabili fattori” (pag. 66).

Tuttavia, nonostante quanto appena riportato, Liotti osserva come le due tipologie di aggressività difensiva e predatoria possano in alcuni casi coesistere, come nei casi di Disturbi Dissociativo dell’Identità (DDI), nel quale le due personalità manifestano ciascuna una delle due tipologie di condotte violente.

Ciò dovrebbe far riflettere, sempre secondo Liotti, sul fatto che scindere rigidamente le due tipologie di aggressività possa essere controproducente nel comprendere alcune manifestazioni complesse dell’aggressività come quella riportata sopra o tipiche di altre condizioni di disagio psichico come nei casi di deliri di persecuzione, di Disturbo Paranoide di Personalità (DPP), degli agiti autolesivi o parasuicidari del DBP e del suicidio.

Per approfondire le dinamiche motivazionali di queste ultime casistiche vi invito a leggere le pagine di questo prezioso e ricco ultimo contributo di Giovanni Liotti, ancora una volta capace di addentrarsi e argomentare con minuziosità, mantenendosi metodologicamente rigoroso, nella teoria della pratica clinica.

Bibliografia

Blair, R. J. R. (1995). A cognitive developmental approach to morality: Investigating the psychopath. Cognition57(1), 1-29.

Dawkins, R. (2013). Il gene egoista. Edizioni Mondadori.

De Zulueta, F. (1999). Dal dolore alla violenza: le origini traumatiche dell’aggressività. Cortina.

Liotti, G., Fassone, G., & Monticelli, F. (2017). L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali. Milan, Italy: Raffaello Cortina.

Lorenz, K. (1963). L’aggressività. Il cosiddetto male. Tr. It. Il Saggiatore, Milano 2015.

Meffert, H., Gazzola, V., Den Boer, J. A., Bartels, A. A., & Keysers, C. (2013). Reduced spontaneous but relatively normal deliberate vicarious representations in psychopathy. Brain136(8), 2550-2562.

Morris, D. (1967). La scimmia nuda: studio zoologico sull’animale uomo. Bompiani.

Mrug, S., Madan, A., & Windle, M. (2016). Emotional Desensitization to Violence Contributes to Adolescents’ Violent Behavior. Journal of abnormal child psychology44(1), 75–86. https://doi.org/10.1007/s10802-015-9986-x

Volpato, C. (2012). La negazione dell’umanità: i percorsi della deumanizzazione. Rivista internazionale di Filosofia e Psicologia3(1), 96-109.

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Vittorio Arrigoni
Psicologo, Psicoterapeuta Cognitivo Costruttivista Relazionale in formazione e cofondatore di Cultura Emotiva. Lavoro all'interno di una Comunità Terapeutica per adolescenti con disturbi psichiatrici. Sono insegnante di Mindfulness e insegnante di MBCT (Mindfulness Based Cognitive Therapy) per la depressione, titoli che ho acquisito, dopo anni di pratica meditativa, attraverso il Master di Mindfulness in ambito clinico diretto dal Prof. Fabrizio Didonna. La mia passione rimane tuttavia la Mindfulness in relazione, ambito nel quale ho conseguito un diploma sotto la supervisione di Anne Overzee e Deirdre Gordon, docenti senior del Karuna Institute (UK). Sono anche insegnante in formazione di Mindful Self-Compassion (MSC), avendo frequentato il primo teacher training organizzato in Italia in collaborazione con il Center for Mindful Self-Compassion. Tra le esperienze più significative della mia vita ho vissuto a Cipro per cinque mesi frequentando l’University of Cyprus (UCY) durante il mio Erasumus. Le persone che ho incontrato mi hanno infuso un profondo senso di abbondanza, condivisione e comunità del quale desidero rendere tutti compartecipi. Contatti: v.arrigoni6@campus.unimib.it

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