9542226 - masks with theatre concept

Vi è mai capitato di ricevere un complimento e sentirvi più a disagio che lusingati? Oppure di ricevere una promozione a lavoro o un bel voto a scuola e, invece di provare gioia e soddisfazione, sentire un senso di sopraffazione e paura?

Se la risposta è sì, potreste aver sperimentato il fenomeno che nel 1978 è stato definito per la prima volta come “sindrome dell’impostore” (Clance & Imes).  Pur non essendo una diagnosi inserita in alcun sistema nosografico di riferimento, come il DSM 5, le manifestazioni di questo fenomeno e l’interesse che cattura continuano ad aumentare. Vediamo dunque di cosa si tratta.

Il fenomeno dell’impostore viene spesso rilevato in persone che possiamo definire di successo, con un alto rendimento accademico o lavorativo.

Si manifesta come un generale senso di inadeguatezza, ma la sua caratteristica fondamentale è che chi la sperimenta sente di essere -appunto- un impostore, di aver ingannato in qualche modo involontario l’altro, spingendolo a credere di valere più di quanto non valga realmente.

Il corollario di questa credenza è che “l’impostore” teme in ogni momento di essere scoperto, di essere smascherato in quanto tale dagli altri, rivelando la sua inadeguatezza (percepita) e, per scongiurare questa terrificante possibilità, può assumere una vasta gamma di comportamenti diversi che non fanno altro che alimentare il suo problema, come vedremo.

Insomma, la sindrome dell’impostore spinge chi ne soffre a sentirsi costantemente non meritevole del successo o dei riconoscimenti che ottiene, nonostante siano presenti prove oggettive e concrete a dimostrare il contrario.

Alcuni “impostori” attribuiscono il proprio (im)meritato successo alla fortuna o al caso, altri ancora al proprio fascino o al proprio carisma, che involontariamente ammalierebbe i loro interlocutori.

Così, il nostro impostore potrebbe diventare un “workaholic”, un  maniaco del lavoro che farà sforzi sovrumani per cercare di non farsi mai trovare impreparato, oppure un procrastinatore seriale che, ottenuto un riconoscimento, si sottrarrà a qualsiasi futuro confronto ed opportunità, per la paura di non riuscire a replicare una tanto fortunata performance ed essere, quindi, smascherato.

Eppure, sono proprio queste strategie, i tentativi di nascondere e celare un tanto ingombrante segreto, accompagnati dalla paura di non valere abbastanza, a mantenere vivo e vegeto l’impostore/persecutore delle vittime.

Ogniqualvolta riescono a “fregare” il prossimo, nascondendo le proprie insicurezze o evitando le occasioni di confronto, si rafforza l’idea che l’obiettivo finalmente raggiunto non è affatto merito delle loro capacità o abilità, ma solo delle mirabolanti strategie che hanno utilizzato per evitare il peggio, come i durissimi sforzi o una retorica brillante. 

La sindrome dell’impostore è figlia di una società ipercompetitiva che valorizza il successo immediato e che ci pone costantemente al centro di un’attenzione che è un’arma a doppio taglio: tutti la desiderano ma, una volta sotto il riflettore, non ci si può più permettere di sbagliare.

E’ il risultato di un approccio pedagogico e sociale che valorizza il risultato e penalizza il significato di ciò che facciamo.

Da un punto di vista psicologico, possiamo ricondurre il problema a quella che si definisce una teoria entitaria delle abilità (Dweck & Sebenson, 1986).  Nel momento in cui cominciamo a metterci alla prova con le prime esperienze di apprendimento, a scuola e in famiglia, ci formiamo un’idea, più o meno precisa, delle cause del nostro successo, o insuccesso.

In questa fase, l’ambiente psico-educativo influenza fortemente le credenze relative ai processi di apprendimento, alla  nostra identità e a come questi due elementi si combinino assieme.

In altre parole, un contesto educativo che attribuisce il successo al possesso di determinate abilità – innate, stabili e immodificabili, come il talento – favorisce l’emergere di una teoria delle abilità di tipo entitario: o ce l’hai, o non ce l’hai.

Possedere una teoria di questo tipo farà dipendere interamente l’identità della persona dai feedback provenienti dall’ambiente esterno, come i voti scolastici o i riconoscimenti e, ogniqualvolta il feedback sarà negativo, a passare non sarà il messaggio “devi ancora imparare qualcosa” ma quello “non hai quello che serve per questo compito, non sei abbastanza”.

E’ probabile che sia per questo che chi soffre della sindrome dell’impostore risente della normale ambiguità dei feedback relativi alla propria prestazione; quando riesce  in qualcosa, viene schiacciato dal peso di dover poi sempre dimostrare il possesso di quella specifica abilità, per evitare di dover rimettere completamente in discussione la propria identità.

Ma il modo per contrastare questa tendenza esiste ed è stato definito teoria incrementale delle abilità (ibidem).

Una teoria incrementale delle abilità ci permette di percepirci come individui in uno stato di costante crescita ed evoluzione, dei work-in-progress: pur possedendo delle abilità, queste sono modificabili e vanno costantemente sviluppate e affinate attraverso l’apprendimento, che è un processo mai concluso e mai definitivo.

Impiegare una teoria incrementale delle abilità ha un effetto protettivo rispetto ai feedback negativi, che verranno correttamente attribuiti e contestualizzati ad una specifica prestazione, piuttosto che estesi al nostro senso di identità.

Ci permette di accettare l’incompletezza e l’inesperienza, la non familiarità con qualcosa come una sfida, un’occasione per provare a metterci in gioco e a migliorarci con la pratica. Di godere, insomma, non solo della destinazione, ma anche del viaggio dell’apprendimento.

Anche se il nostro ambiente educativo principale non ci ha permesso di sviluppare questa prospettiva, niente paura: si può sempre apprendere ad apprendere meglio, a gettare giù la maschera e a rivelarci nella nostra autenticità, permettendo a noi stessi di compiere tutti gli errori che servono prima di padroneggiare qualcosa di nuovo.

Come disse un saggio: “Ciò che dobbiamo imparare a fare, lo impariamo facendolo.” (Aristotele)

BIBLIOGRAFIA

Benensons, J. F, & Dweck, C. S. (1986). The Development of Trait Explanations and Self-Evaluations in the Academic and Social Domains. Child development, vol. 57, n° 5, pp. 1179-1187

Rakestraw, L. (2017). How to stop feeling like phony in your library: Recognizing the causes of the imposter syndrome, and how to put stop to the cycle. Law Library Journal, 109(3), 465-479.

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